Monday, October 11, 2010

SanTurkini 2 - Istanbul and Constantinople


Arriviamo all’Aeroporto Ataturk di Istanbul nel primo pomeriggio del 4 agosto ed il primo impatto sociale è quello con una struttura moderna, pulita ed efficiente nei servizi, come il recupero bagagli, o il collegamento con il centro della città, poche lire (1 € = 2 Lire) per prendere metro e tram e giungere nel cuore di Sulthanamet proprio mentre la voce dei muezzin richiama dall’alto dei minareti i fedeli alla preghiera della sera e me alla prima meraviglia.

Durante la permanenza ad Istanbul per l’organizzazione degli spostamenti, per la scelta dei ristoranti, per i suggerimenti sulle escursioni ci sarà utile fonte di consigli il blog di scoprireistanbul.com, che consiglio ad ogni partente per migliorare l’organizzazione ed alimentare le proprie curiosità.

Ci sistemiamo nel comodo alloggio dell’Hotel Apex Boutique, pulito, economico ed accogliente come da recensioni su Booking, dove l’ospite viene accolto con la frutta fresca in camera e il cestino delle bustine da thè, il bagno è ampio e il letto in stile ottomano.

L’approccio centripeto mi dona come prima immagine e copertina del memoalbum lo splendido faccia a faccia tra la Moschea Blu e Santa Sofia: Istanbul and Constantinople.

Sultanahmet comprende il cuore monumentale di Istanbul, esibendo le memorie di imperi secolari e le dimostrazioni d’effetto dei Sultani ottomani. Incontro innanzitutto la maestosità della Moschea Blu con il vanto esclusivo dei sei minareti, assoluto riferimento panoramico nel cielo di Istanbul. La ricchezza di quest’edificio di culto, quasi coevo al Rinascimento italiano, si deve soprattutto alle ceramiche blu di Iznik che illustrano le volte e al lavoro antico dei maestri calligrafi e miniaturisti, le cui ristorazioni di grappoli d’uva, frutta e natura, comunicavano la fertilità ubertosa dell’eminenza ottomana.
Chissà dove andarono a dormire la sera che fu terminata la Moschea Blu i muratori.

Antistante alla suddetta grandiosità, resiste Santa Sofia (o Aghia Sofia), a perenne gloria che fu di Costantinopoli, ben prima dell’avvento turco. Edificio del 500, porta tanti secoli quanto pesa, 1500 anni d’arte grecoromanica e bizantina sopravissuta alla trasformazione in moschea, alle guerre, agli incendi e ai terremoti e preservata oggi sottoforma compromissoria di museo. Archetipo degli archetipi, a Santa Sofia il genio umano s’inventa l’architettura della cupola, mille anni prima di San Pietro e altrettanti prima che la moschea di Solimano restituisse la pace cittadina all’invidia ottomana, superandone il diametro di curvatura. Entrare a Santa Sofia è come entrare nell’Argan di storia dell’arte. Lo splendore dei mosaici bizantini contiene un residuo di spiritualità ancestrale, realmente unica al mondo, insita nell’aureola mistica&artistica di quel Cristo e di quella Vergine,di San Giovanni Battista, permanentemente istoriati a vive tessere d’oro. Per chi viene da Roma, son poche le chiese capaci di destare pari scatto d’intensità emotiva.

In mezzo alle due mammesantissime monumentali, scorre la vita secolare di Istanbul, allargando la propria luce in un bel giardino dalle aiuole perimetrale di begonie e alberi infiorati di rosa, vivacizzato dal dono prussiano di una fontana prodiga di giochi d’acqua. Qui si riposano i turisti in posa per le foto, i bambini che giocano a recuperare le scarpe smarrite tra gli schizzi della fontana, le donne con il velo e quelle con il burqa, mentre intorno si anima un terziario dal dettaglio vario ed eventuale.

Le strade di Istanbul s’inbrulicano d’un’infinita fanteria mercante: venditori di pannocchie lesse e di pannocchie arrostite, venditori di ciambelle al sesamo, venditori di bottigliette d’acqua, venditori di fiori, venditori di frutta e di verdura, venditori di caramelle filanti alla spina, venditori molto acrobatici di gelato, venditori di bicchierini di thè, venditori di mele a fettine, venditori di numeri della lotteria estratti da conigli, venditori di borse griffate di fresco, venditori di panini con lo sgombro, venditori di chincaglierie, venditori di fotografie e lustratori di scarpe… tutti in fila per un pugno di dollari.

Appena prima di arrivare a Istanbul ho intrapreso la lettura di Orhan Pamuk, autore contemporaneo turco già meritevole di un premio nobel. Il romanzo “Il mio nome è rosso” è un voluminoso affresco della Turchia del XV secolo, ambientato intorno ai maestri miniaturisti che istoriavano, sacrificando la luce dei propri occhi, i libri commissionati dai Sultani e custoditi nelle biblioteche della sede imperiale del Topkapi. La ricchezza espositiva e il gioco sagace della scrittura di Pamuk riprendono con serenità magistrale l’abilità di questi artisti, facendone ricami con formichine d’inchiostro.

Sede della potenza ottomana e dimora dei sultani, il Topkapi ospitava le stanze riservate dell’Harem, laddove si decideva la discendenza dell’illimitato potere temporale e venivano custoditi i tesori conquistati ad intere popolazioni, insieme agli accativanti doni diplomatici delle potenze rivali. La dimensione dello sfarzo ambisce a varcare il confine tra umano e divino e si circostanzia di linfa vitale, suggendo le vite prescelte delle mille donne dell’harem, dei miniaturisti e dei calligrafi, degli architetti e dei maestri artigiani, dei diplomatici e dei visir. Le porte in madreperla, le maioliche blu, i colorati motivi decorativi, conferiscono alla dimora dei sultani una dimensione trasecolante di potenza univoca, come una forzosa volontà di transustanziazione immanente. Questo sforzo di sfarzo ha la sua esplosione mondana nel tesoro del palazzo Topkapi. Scrigni di smeraldi e troni tempestati d’oro, statuine figurative di finissimo avorio. Eppure spiccano tra tanti ori da perderci i carati, l’illustre pugnale d’oro, diamanti e rubini e l’irenico splendore di un diamante grosso come un uovo e luminoso come un faro sull’isola del tesoro.

Rimanendo sempre a Sultanahmet, non troppo distante dalla magniloquenza del Topkapi ottomano, un’altra opera del genio civile grecoromanico si ostina a serbare memoria della preesistente Costantinopoli. La Cisterna, voluta millecinquecento anni fa dagli imperatori bizantini e dopo secoli riscoperta casualmente da un viaggiatore olandese, incuriosito dal bottino di imprevisti pescatori metropolitani, trascende l’idea del genio civile che immaginiamo poter attribuire alla lontananza di quei secoli, alla faccia del mistero di pulcinella delle piramidi. Centinaia di colonne sotterranee sorreggono questo serbatoio d’acqua appena illuminato di rosso fatuo, dove nuotano storicamente ignari, sotterranei pescioni rossi.

Oltre Sultanahmet, è ancora infinita la grandiosità dell’opera magna edificata ad Istanbul. Dalla vertiginosa torre genovese di Galata lo sguardo si fa panorama sul Corno d’Oro e sui minareti del Bosforo, mentre volano stormi di gabbiani a far traffico anche nei cieli.

Le velleità moderne di questa capitale dell’Eurasia rivelano il loro dinamismo percorrendo il chilometrico viale di Istiklal che porta alla piazza di Taksim, cuore pulsante della Turchia contemporanea e laica, percorsa da migliaia di passi laboriosi, mentre tutt’intorno ferve la vita dei locali e la musica della mejo gioventù che fu ottomana.

Ma di altri quartieri e di altre strade è fatta la città reale, quartieri esterni ai circuiti turistici e per noi cordialmente illuminati dalla visita sapientemente guidata dagli autori di scoprireistanbul.com.
In una mattinata in cui il caldo raggiunge la temperatura di 44° gradi percepiti e per niente attenuati dalle bottigliette d’acqua consumate in serie, ci inerpichiamo scapantibus&sherpantibus per le vie di tre quartieri centrali e cardinali: Fatih, Fener, Balat. Incidentalmente aggiungo che ad Istanbul ci si muove facilmente ed economicamente grazie ai mezzi pubblici, dove non manca l’aria condizionata.
Prima di iniziare la visita guidata, ci affacciamo nella Moschea dedicata a Rustem Pascià, eroe turco protagonista di leggendari cicli d’avventure. Come nella Moschea Blu, anche qui trionfa la bellezza delle maioliche di Iznik, con la particolarità sprizzante del colore rosso.

Fatih è oggi il quartiere metropolitano più integralista e conservatore, antipodalico rispetto alla laicità nazionale proclamata dal Padre della patria Kemal Ataturk. Qui vivono gli immigrati giunti dall’entroterra e dai paesi confinanti, sensibili alla militanza integralista e al richiamo della tradizione religiosa.

Sotto l’acquedotto di Valente, giocano a carte bevendo thè, senza alcuna concessione a pantaloni corti o piedi scoperti, gli uomini tra loro veterovirilmente congregati, e camminano rapide sui marciapiedi, sfuggendo sguardi e frescure, le donne interamente vestite di nero pesante, il capo coperto dal burqa, concedendosi al limite insospettabili velleità di tacchi alti. La via principale consente di incontrare anche la tradizione culinaria delle regioni di provenienza di quest’immigrazione e qui pare si mangi il miglior kebab di Istanbul.
Nel cuore di Fatih, una apparente contraddizione politica rispetto al sinistradestra europeo: un intero edificio avvolto da una bandiera palestinese, testimonia la fede conservatrice e destrorsa del conservatorismo di stampo religioso, caro all’attuale premier turco Erdogan. Mentre la bandiera nazionale turca, così spesso presente in città, solitamente indica la laicità dello stato e s’accompagna a posizioni progressiste. A Fatih, dove l’autorità patriarcale e matriarcale resiste al laicismo nè tantomeno ha conosciuto sessantottismi, vige la regola religiosa e può capitare che ad una ragazza venga preclusa l’iscrizione all’Università da parte dei genitori, stante il divieto di indossare il burqa nel perimetro dell’istituzione laica. Intorno i negozi espongono solo vestiti tradizionali e conformi alla regola. Sicchè a Fatih è facile incontrare un giovane studente coranico, precocemente avviato alla carriera da imam, mentre a Sultanahmet una coetanea adolescente passeggia con il velo colorato, la maglietta punkeggiante e le converse all star.
La presenza insolita dei turisti attira sguardi curiosi, di adulti riprovevoli verso i costumi occidentali ma soprattutto di bambini, gioiosi&giocosi, felici di salutarci e magari speranzosi di spicci. Un piccolo stuolo di ragazzini salutanti, gli ‘Hellos’, ci segue per un chilometro, tutti in posa a denti scoperti per le foto antropologiche in very national geographic style.

Fener, antico quartiere greco, e Balat antico quartiere giudaico, sono quartieri dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Qui, nei secoli, hanno vissuto, brigato e generato ogni fenotipo umano, popolare e letterario proprio dell’anima turca. Da quartieri ricchi che furono, oggi incurvano sotto il declino e l’incuria, mancando le risorse per la manutenzione di queste strade.
Le vicende storiche, gli incendi e i terremoti hanno ridisegnato la presenza antropica sul territorio e oggi non vi sono le suddette caratterizzazioni etnico religiose persistenti. Ma restano le ville e le case d’ispirazione vittoriana, con i balconi chiusi sporgenti come pance di legno, tra parabole, panni stesi e gialloverdi/rossoazzurri colori pastello, saliscendi stradali e alberi di fico a profumare l’aria.

Concludiamo il giro visitando la chiesa mai convertita di Santa Maria dei Mongoli, mantenuta a colpi di vetril e buona volontà dai custodi, nel disinteresse delle istituzioni che riservano alle moschee i pochi soldi delle casse, la bizzarra Chiesa prefabbricata interamente in ferro di Santo Stefano dei bulgari e i mosaici storici del più famoso complesso monumentale di San Salvatore in Cora.

L’affaccio sul mare più brulicante di Istanbul è quello di Eminonou, punto nodale della navigazione urbana sul Bosforo sbrilluccicante d’azzurri riflessi e di vita vissuta. Ci imbarchiamo sul traghetto di linea per un lungo giro sul Corno d’Oro, in felice osservazione dei lungosponda cittadini. Sfilano i palazzi residenziali e le ville estive sul Bosforo, con i loro attracchi riservati, attraversiamo colline boscose e visionamo almeno tre ponti sullo stretto, genio civile con esibizionismi di colore cangiante. Passiamo accanto al quartiere di Ortakoy, dove una vivacità di gente nei locali si prende il tempo di vivere e di ballare come in quadro di Renoir.

Nelle prime file del traghetto la scena è rubata da un anziano signore presumibilmente settantenne o giù di là, che rispondendo al ritmo delle musiche diffuse, prima accenna il passo, poi apre la danza e infine da spettacolo, improvvisando una pista da ballo accompagnato da una compagna di show. Lui, viso furbo y final da calciatore sudamericano d’altri tempi, vestiti semplici ma impeccabilmente comodi,un barbiere per amico e le movenze memori di chi in gioventù ben spesa è stato avanzo di balera. Lei, quaranta portati male o forse sessanta portati bene, magra come un chiodo, un sorriso dolcemente conviviale e un look di pantacollant da ragazza dello zoo di Berlino. Gli applausi dell’improvvisato pubblico sottolineano l’esibizione.

Visitiamo anche il Dolmabahce, residenza dei sultani ottocenteschi, una Versailles di fine impero o uno Schonbrun indotto. Calpestiamo il parquet salvaguardandolo con terrificanti calzari in domopak, senza pietà per il caldo che fa. La ricchezza di saloni e lampadari mostrano il compromesso storico e culturale di un Impero che si monarchizza. Qui s’insedia anche la Repubblica finchè si fermano gli orologi, alla morte di Ataturk. Oggi restano le guardie turche militanti di guardia ai cancelli sul mare, se dovessero fregà er Bosforo…

Vicino al Dolmabache si mette in evidenza il quartiere di Besiktas, popolare, moderno e alimentare, mercato del pesce e negozi di coevità tecnologiche.

Tutt’altra anima commerciante nei due grandi mercati cittadini. In zona Eminonou, indentrato nei vicoli secolari, s’effonde il Bazar delle Spezie. Polveri, semi e frutti da mille e una strada, echi di carovane&cammelli dispersi in passati marcopolici per arrivare oggi a questa vendita al dettaglio, in fotogenica scenografia dolomitica, montagne di curry, cannella, pepe, coriandolo e cumino, noci caramellate e glassate, frutta secca candita, pistacchi e nuvole piccanti, gelatine e miscele di tè…gradazioni di verde, gialli profusi, ocra e porpora in the air. Qui è facile sentirsi fortunati dopo l’acquisto di sacchi di zafferano a prezzo da noccioline per le scimmiette... Resisto alle spezie e acquisto in controtendenza una maglietta rosso scugnizzo, perchè più che l’aroma potè il color.

Ma il trionfo del dettaglio, la transustanziazione della compravendita è Kapalicarsi, il Gran Bazar che per estensione fa provincia e offre ogni estro dell’occidente a prezzo da vicino oriente. In un formicaio d’umanità ceramiche fatte a mano e fatte in cina, tappeti d’autore e zerbini da reparto, giubbotti in pelle e cappotti in cartone, residui di manifattura tessile ivi prodotta e alti capi ivi contraffatti. Gioielleria e bigiotteria, argento al grammo e souvenir a chili, borse firmate e controgriffate in ampio assortimento dalla pelle all’ecocartone. Basta scegliere e pagare, trattando s’intende.


E infine la cucina. Come si traduce in bocconi per mascelle quest’immenso scorrere di vita e di storia? Nel tutto&ovunque, che domande. Ad Istanbul lo “street food” ha dimensioni da capitale universale. I panini con lo sgombro o gli spiedini di cozze fritte si trovano facilmente ad Eminonou o lungo le soste del giro sul Bosforo, ma soprattutto imperdibile è la “Kumpir” che si vende ad Ortakoy: patata sotto cenere, farcita di slavine di bendidìo e salse a volontà e auspicabile il “lamakun”, ovvero la pizza turca da consumare
con una spruzzata di limone piegandola a libretto. Menzione di parziale onore per il kebab, spesso buttato là, come si buttano le carbonare al colosseo.

Quanto ai ristoranti, dove mangiare con la media di trenta corone (15 €) in due, vale la pena assaggiare i fagioli al piatto di “Kurufasulye”, a Sirkeci, quasi di fronte alla Stazione dell’Orient Express, le “kofte” – polpette - di Sulthanamet, trattoria per turchi buona pur se fin troppo rapida o il “kokorec”, per gli amanti del quinto quarto, una sorta di pagliatina speziata d’agnello, davvero buona o l’ “Imam svenuto”, melanzana infornata con un listarellato passito di cipolle e peperoni.

E’ una sera dei miracoli a Sultanahmet. Vogliamo festeggiare ricorrenze e cerchiamo quel bel ristorante di cui abbiamo letto, laddove la cucina ottomana elabora e rappresenta la sapienza tradizionale. Cerchiamo il Karakol, percorriamo al chiaro di luna i viali che costeggiano il Topkapi ma qui non c’è insegna che ci indichi la strada, sicchè ci rivolgiamo alle autorità locali che son due poliziotti di guardia al mondo, che cortesemente ci chiariscono che occorre bussare, fare toc toc e accederemo dentro il giardino stesso di quella che fu la residenza secolari dei sultani. Ma fare toc toc ad un portone di ferro alto quattro metri e largo altrettanto non produce che un suono attutito. Citofonare Topkapi, non è possibile. Ma si vede che era destino. Un ragazzo di bell’estrazione con la sua compagna tirata a lucido, stanziano proprio davanti quell’uscio, e il caso vuole che sono amici del padrone del locale e gentilmente si offrono di farci entrare, telefonando direttamente dove apresi quel che si vuole e più non dimandar. Così, due poliziotti ci aprono il portone, tirando pesanti catene e varchiamo quella che è stata La Sublime Porta, soglia del desiderio secolare per infiniti sudditi, uscio temuto anche dai protagonisti di romanzi, proprio come capita all’attonito Nero protagonista del libro di Pamuk che sto leggendo. E non ci sono code di turisti, folle mattiniere alle biglietterie e clikki clikki fotografici. Ci siamo solo Noi, Cesaroni d’Occidente in odor di magic moment. Il Ristorante non corrisponde a quanto avevamo letto: è ad un livello ben superiore. Un caposala, due camerieri ed il padrone del locale ci vengono incontro e ci fanno accomodare ad una molto pregiata tavola con tovaglie di lino, forchetterie d’alto bordo e bicchieri soffiati. E non ci siamo che Noi, che evidentemente quella soglia inibisce l’avventore casuale ma s’apre solitamente ai referenziati. Fa fresco, si sta bene, c’è il Topkapi tutto per Noi. Contiamo gli spicci e ordiniamo. Il Menù riporta l’offerta di piatti lunghi almeno tre righe di barocco condito, e le nostre scelte ricadono su tortini imbalsamizzati e controfiletti aromatici&trifolati, scottati, saltati, cheffizzati. D’improvviso non ci sono dodici milioni di abitanti in perenne vorticare on the road, né resse turistiche, ma una bellezza dedicata solo per Noi. Andiamo via facendo le foto, il Portone del Topkapi si riapre per Noi e ci portiamo via un souvenir di quelli che pure se ci fai le foto, il ricordo vero è inciso nella memoria. Diciamolo, Istanbul val bene un compleanno.


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