Friday, September 26, 2008

Per una lira - Se ho chiesto troppo tu dammi pure la meta'


“Basta, basta, basta, bisogna giungere ad una conclusione. Offra chi deve offrire, firmi chi deve firmare, e leviamoci il dente e il dolore, questo immane dolore che un po’ tutti ci riguarda, almeno chi ha dentoni responsabili e non mangia pane a tradimento, tradimento dell’onor patrio, ricordatevi di Zidane, destatevi e firmare, firmare! I precedenti governi, i prestiti ponte sullo stretto contingente e i sindacati canaglia, addavenì Brunetta, Roma ladrona, Malpensa non perdona! C’è una cordata di capitani. Capitani d’impresa, il Made in Italy che non vuol morire, non pensa solo alle feste del cinema, lavora&produce, investe per il rilancio&accetta la sfida, la sfida della modernità, delle riforme strutturali, dei cambi di mentalità, qui bisogna cambiare, cambiare! Firmare, firmare! Basta con i privilegi, non c’è alternativa, you see minestra, you see finestra? Eat or Jump. Aiutaci a salvarti. Gli italiani sono contenti e questi sono numeri, ma li leggi i giornali? Presto che è tardi!”

Così il Governo fa il tifo a scena aperta, oltre ogni legittima parzialità. Coerentemente con sé stesso, dunque.

Vince il Sistema Italia New 2008.
Come fu per Alfa Romeo (che mi dicono fu presa da FIAT per una lira).
Come fu per Mondadori.
Come fu per Telecom.

Capitani Coraggiosi, Capitani d’impresa all’assalto col piatto di lenticchie e la corda saponata.
Capitani fuori mercato, che comprano attivi e rimettono a noi i nostri debiti, come loro li rimettono ai nostri debitori. Capitani della Quota Parte. Capitani che sono una Garanzia di Sistema. Capitani che sono amici di tutti, che si sentono in dovere di intervenire, capitani senza odore, perché pecunia non olet. Capitani coi soldi dell’altri.
Capitani senza Governance, che è una parola inglese e perciò non fa parte dell’italianità da salvaguardare.
Capitalisti finanziati dentro scatole cinesi, che a guardarci dentro dal buco magari ci vedi perfino San Pietro, come dalla serratura di Piazza dei Cavalieri di Malta sull’Aventino. Capitalisti della Bandiera, ma con i redditi portati all’estero e gli investimenti Lòw Cost tra Bucarest e Pechino. Capitalisti che a pensar male, ci entri subito in sintonia, come i servi sciocchi e i giornali anch’essi di bandiera, con le loro facili mistificazioni.
Capitalisti che vogliono la nostra pelle, oggi la mia domani la tua, una poltrona per volta, basta che resti sempre il quorum utile alla partita.


Mentre il governo ombra rimane nell’ombra, non si sente e non si vede, altrettanto coerentemente.Spiazzati forse dall’espressione “piano industriale”, che non se l’aspettavano, Veltroni aveva già pronta come base per la trattativa una bella lista di filmissimi per i voli intercontinentali, pensava bastasse per mettere d’accordo tutti. Gli altri stanno ancora scrivendo le memorie del XX secolo nei locali subaffittati a prezzo di favore dalla Lega.


E poi la gente, perché la gente lo sanno benissimo da che parte stare, la gente siamo noi, che abbiamo tre idee e saltiamo alle conclusioni, siamo noi che siamo decisionisti e troviamo facili soluzioni, siamo noi che fosse per me sarebbe tutto più facile, siamo noi che andiamo a letto la sera presto e ci svegliamo la mattina presto e poi ci viene pure malditesta, altro che cazzi.

Infine l'Impresa, Alitalia, tanto pè capisse. Grandi Imprese protette dagli amici degli amici. Grandi Imprese che sono state vacche grasse, affinché vi fossero latte, burro&formaggio ricchi di natura. Grandi Imprese senza onere di politiche industriali valide, senza costrizioni di profitto, coi biscottini da cento euro inclusi nel prezzo del biglietto, senza voli quotidiani per Pechino o per la California ma con gli scali sotto casa dell’onorevole, senza noblesse-oblìge per i privilegi ma con l’ impermeabile per gli sprechi che tanto poi si assorbe tutto, la fortuna del posto sicuro e il Sindacato che ammazza il Drago.

E intanto il Commissario firma gli stipendi di settembre. Io devo ancora vedere quelli di luglio, ma non ci lamentiamo troppo che a giugno era peggio, non ho mai avuto un’ora di straordinario pagata né sono mai uscito in orario in sette anni, non una trasferta pagata extra, che è già tanto se non anticipo i soldi. Dei contributi è meglio non sapere nulla. E se domani finisce tutto a zampe per aria, nessuno mi reinserisce, mi scivola o m’ammortizza se non forse mammà&papà. Siamo tutti sostituibili, senza se e senza liquidazione. Qui nel profondo fondo delle PMI, Sindacati non ce ne sono mai stati: ci hanno già dimenticato sul nascere, una decina d’anni fa, nel pollaio dei co.co.co e successive modifiche. Noi ci licenziano quando vogliono, pure se abbiamo il contratto a tempo indeterminato, è solo questione di forma. E mi sorprendo a pensare che per quanto solidarizzi con la hostess di Alitalia e il suo rifiuto di firmare un contratto capestro, la sua preoccupazione su come farà a finir di pagare l’appartamento di centometriquadri a Roma Monteverde, con altri dieci anni a mille euro di mutuo, è una preoccupazione di gran lusso. Come i protagonisti borghesi di quell’infame e vile film di Soldini, “Giorni e Nuvole”, che si ritrovano a dover fare a meno della vacanza a Zanzibar e del Vermentino autografato e pertanto si disperano. Mi sorprendo a pensare che vorrei averli io i problemi degli insegnanti, dei lavoratori alitalia, degli statali, dei metalmeccanici della fiat. Almeno vi vedono, almeno avete avuto il tempo di farvi una famiglia… mi sorprendo a pensare che non volevo pensarlo, ma mi s’è incastrato il sorriso con l’umidità di questi luoghi.

Per una lira io vendo tutti i sogni miei.
Per una lira ci metto sopra pure lei.
E' un affare sai basta ricordare di non amare, di non amare.
Amico caro se c'e' qualcosa che non va.
Se ho chiesto troppo tu dammi pure la meta'
E' un affare sai basta ricordare di non amare,
di non ama....re.
No no nooo Nooooo
Per una lira io vendo tutto cio' che ho
per una lira io so che lei non dice no.
Ma se penso che tu sei un buon amico
non te lo dico, no meglio per te meglio per te…

(Per una lira - Lucio Battisti)

Thursday, September 18, 2008

Se piove porteremo anche l'ombrello


Roma, Porta Metronia fine anni ’70. Facile essere bambini a casa di nonna e ancor più facile giocare con i pennarelli e le macchinette del caffè. Smonta la macchinetta, rimonta la macchinetta, io non chiedevo altro, neanche il caffè. Scegli i pennarelli, una predilezione per il viola, il celeste e l’arancione senza neanche bisogno di spiegare perché invece il verde scuro proprio non lo volevo usare, quel colore cattivo come il prezzemolo.

Bello avere uno zio di venticinquanni, che ti porta a fare le passeggiate la sera, dopo cena, quando chi ha lavorato è già stanco, la Rai manda telefilm con Ulisse e Anna Kanakis mentre sul fornello mamma ha già messo a sobbollire la camomilla.

Uscivamo io e zio, godendo di autorizzazioni speciali per aggirarsi al buio, anche se erano le nove e mezza o le dieci.

Andavamo sotto le mura e facevamo “a noi che ce frega”.

Potevo dire le parolacce dei bimbi, forte di confidenza nepotista.

Potevo andare a prendere una fetta di cocomero d’estate al chiosco sotto le mura. Un generatore elettrorumoroso consentiva ad un televisore in bianco&nero di trasmettere outdoor le partite dei Mondiali di Argentina. Una sera facevano Iran-Scozia e io sputavo i semi cercando di mettere i record di lontananza.

Potevo addirittura, in certe sere vicine a natale, ritrovarmi a Piazza Navona, tra mele stregate di glassa caramella, zampognari molisani e pastorelli del presepe. Lo scherzo più bello del mondo era comprare una finta mèrd e farmi trovare a braghe calate sul pianerottolo da nonna, scusandomi di non essere riuscito ad arrivare in bagno.

Potevo nascondere una moneta segreta a cento passi da casa e poi tornare a vedere la sera dopo se c’era ancora. Stevenson l'ho inventato io.

Potevo farmi portare al Luna Park, ululare nel tunnel degli orrori, curvare sul mostro di Loch Ness, lanciare palline da ping pong nelle vaschette dei pesci rossi e vincere razzetti dalla punta esplosiva infilando gettoni nelle ruspe.

Zio era stato in Svezia e mi raccontava che era tornato in taxi, perché aveva finito i soldi ma facendo il lavapiatti aveva conosciuto un tassista romano in trasferta godiva a Stoccolma che gli aveva offerto un passaggio.

Fischiettavamo che bello, se piove porteremo anche l’ombrello.

Era semplice ma quegli anni erano anche più grandi di quello che vedevano i miei occhi bimbi.

Un giorno vedemmo un tipo con un passamontagna che correva su una moto. Il passamontagna serviva per il freddo, mi dissero, ma io mica ero convinto.

Quando poi ho iniziato ad ascoltare e ad amare i cantautori legati alla fama di quei pochi anni, uno in particolare mi ricordava quel modo allegro di pensare, quella furbizia popolare dello stare al mondo.

Stefano Rosso si chiamava e aveva una voce che mi ricordava mio zio e il fatto che ero stato piccolo, infilato nelle scarpe correttive mentre si svolgeva la storia di una generazione ventanni avanti a me e dieci anni dopo il boom economico.

Stefano Rosso ha fatto ciaociao con la manina qualche giorno fa e se n’è andato laddove s’erano avviati già in molti dei suoi vicini degli anni ’70, quelli senza eccessive ansie di vecchiaia e previsioni previdenziali.

E nessuno mi leverà mai dalla testa che il chianti ammazza l’anemia.


Letto 26

Via della Scala è sempre là
e io dal letto 26
malato di pazienza sto
e aspetto chi non torna più
è un ragazzino magro che
cantava sempre insieme a me
e morì un giorno che non so
e i suoi bei sogni mi lasciò

E Biancaneve è ancora là
è un po' invecchiata ma che fa
le mele non le mangia più
forse i ragazzi giù del bar
ricordo tanto tempo fa
veniva a scuola insieme a me
la guerra già non c'era più
e poi non c'eri neanche tu

La brillantina e via così
si incominciava il Lunedì
ad invidiare quello che
aveva un libro da studiar
diceva non ti serve a niente
la scuola non ti servira'
e invece io tra quella gente
capivo un pò di verità

La mariujana ti fa male
il Chianti ammazza l'anemia
i miei compagni li ho lasciati
ho preferito andare via
così ho comprato un giradischi
uno di quelli che non va
per non dar noia a quel vicino
che non riesce a riposar

Ho conosciuto tante donne
cattive, oneste e senza età
a tutte ho dato un po' qualcosa
con tanta generosità
a lei, mia madre, i dispiaceri
mentre a mia moglie dei bambini
al primo amore i sentimenti
i baci e l'acne giovanile

Via della Scala è sempre là
e io dal letto 26
io chiudo gli occhi e penso a te
ti sento e invece non ci sei

Wednesday, September 10, 2008

Dalmazia Diamantina





Lo sguardo ad Est era tanto che volevo appuntarlo e anche se in fondo questo è solo occidente d’oriente, Adriatico di manica larga,oltreconfine della porta accanto, la Croazia è pur sempre un viaggio d’oltresponda, terra filtrata dalle lingue, come dire storia vicina eppure in mezzo scorre il mare.

Il tempo delle vacanze è quello che è, subaffitto coatto d’agosto, prendere o lasciare e allora prendere e partire, che ogni lasciata è persa.

Mentre le Olimpiadi di Pechino si congedano dall’autoradio con due sospetti di oro per una disciplina di tiro e per la lotta grecoromanotiburtina, in quel di Pescara affido la tutela della mia auto in un parcheggio insolitamente adibito dalla Marina locale al libero parcheggio avventizio e una volta sdoganato il documento d’identità al checkpoint-ciàrli, stacco il biglietto sulla rotta per l’isola di Hvar, primo approdo di una vacanza dozzinale: dodici giorni e dodici notti d’infradito in odor di Mediterraneo.

Hvar, la Nipote della Serenissima.

Il bello del traghetto veloce è che nemmeno hai finito il giornale e già sei arrivato all’attracco, e già sul pullman per il capoluogo dell’isola. Con la nostra bella divisa da turisti valigiati attiriamo subito la circospezione degli affittuari locali: una snella abitante del luogo ci dimostra il suo alloggio interscambiabile con gli euro dei turisti e siccome c’è bagno, cucina e parquet sul pavimento, per l’equivalente dei nostrani 42 euri che poi sarebbero 21 a testa, stringiamo la mano e validiamo il patto. Gli alloggi per prezzi e comodità subaffittate saranno tutti di questo tenore, asciugamani e aspetto pulito compresi.

Hvar offre subito l’impatto visivo predominate e i segni storici caratterizzanti: una lunga piazza rettangolare interamente pavimentata a lastre lucide e larghe, una chiesa con campanile ben piazzato sul lato corto d’origine, il porticciolo dirimpetto e una fila di caffè sui lati lunghi.

Balza all’occhio la pulizia e la squadratura della pietra e la sensazione di trovarsi in un abruzzo di mare. Per tutto il viaggio farò continui paragoni con la Grecia che meglio conosco, ma sull’abitato la differenza è imprevedibile: non ci sono case bianche e cupole azzurre, ma pietra levigata, tagliata, segmentata e smattoncinata.

Hvar, come tutte le isole della Dalmazia, veste un lascito veneziano e il retaggio secolare d’importazione a livello civile ed architettonico è notevole: vicoli impietriti, chiese levigate, l’arsenale con il bel portone arcuato, al tempo stesso funzionale ed estetico, gli edifici infinestrati e balconati seguendo un’omogeneità regolare da capitolato, logge arcuate, finestre bifore e tutto quel lastricato su cui scivolare.

Altre sensazioni d’impatto primigenio: si parla italiano più che a Ponza, sia per vocazione indigena sia per contingente emigrazione turistica; l’appalto commerciale di Hvar al turismo coinvolge tutti gli affacci sui transiti viari, ma la mediazione tra spazio calpestabile ed esigenza intensiva del commercio turistifilo mantiene nei limiti una proporzione spaziale di salvaguardia.

Vista la bella piazza centrale, affrontiamo i vicoli laterali, sfoderando i primi scatti analogici digitali del vicolame dalmato.

Quali colombe dal desìo d’esplorazion chiamate, ci sospingiamo naturaliter verso la fortezza che domina dall’alto l’abitato di Hvar, immane resto del genio civile serenissimo al servizio della tutela del territorio dal turcomanno, ma anche carcere dalla certezza&perentorietà della pena, senza afflati beccariana.In effetti, colpiscono l’ottima manutenzione oltre alla prevedibile veduta aerea del panorama, con e senza ausilio di un occhione cannocchiale.

Hvar in quanto isola contiene un porticciolo a livello del mare, ove riposano gozzi pescaroli, barchette veline minimaliste ma anche navigli cabinati, yotti condominiali e veloni plurialberati, probabilmente appartenenti a faraoni redivivi&battenti bandiere esentasse o quantomeno ai russi.

Ad un angolo di costa sormonta l’albergone in a very Colossal style, ricamato da piscine arabesche a ridosso degli scogli sul mare, con tanto di angolo lounge e sonorità Madonnare irradiate a sfondo del tramonto, in languor di gioventù danzante&aperitiva.

Resto dei secoli veneziani più o meno decimosesti&settimi sono anche le presenze dei tanti conventi, domenicani e francescani in primis. Uno splendido chiostro fa da scenario ai concerti serotini di musica classica, come fossimo all’Accademia Chigi di Siena.

E siccome come in ogni percorso, alcuni protagonisti si rivelano a cena, scopriamo subito un compagno di viaggio: il calamaro, mon calamour! L’intuizione poi confermata dai fatti, sarà che durante la vacanza il consumo di carne verrà drasticamente sacrificato in onore del fresco pescato locale, tra cui perlappunto spicca il calamaro, sia sottoforma di frittura, onorevolmente leggera, sia in modalità alla griglia. Costui, il calamaro croato, risalta per essere più piccolo del nostrano e più sapido, senza necessità di intingoli, semplice&sincero, praticamente nudista. Accanto a questo migliore amico dell’uomo, le cozze, nella variante locale “alla buzara”,ovvero con aglio, prezzemolo e pezzetti di pomodorini. Nei bei tavoli al fresco di mare del Marinero, per un paio di sere approfondiamo l’introspezione della base alimentare dalmata.

Alcune intuizioni filosogastriche pervadono le papille cerebrali. Elaboro la teoria dello slancio fisico della popolazione croata in virtù dell’uso della griglia. Decido di aprire un ristorante mentale, dedito ai soli distillati di mare, ai sapori semplici, spigolosi, essenziali, salati o basilari, al burro&alici e alle colazioni dei pescatori siciliani con aringhe e Marsala. La mia guerra personale all’industria del cibo succhia linfa ad ogni tratto assimilato. Mi trascendo digerendo.

E dopo cena, basta che io la sera tengo sonno e aggiodurmì.

Le giornate si caratterizzano per la scoperta dell’arcipelago frontestante: le piccole isole Pakleni, ove si giunge a bordo di economici taxi boat, con possibilità di ricercarsi poi per conto proprio dei divanetti petrosi su cui piantare stuoini o ombrelloni. In Croazia primeggia lo scoglio, a tratti alleggerito da spiagge di sassolini&sassoloni, quasi sempre con un corollario costiero di ricci neri che suggeriscono l’acume di farsi il bagno con i sandali o analoghe salvaguardie del tallone. Intorno un’intensa pineta verdeggia profumina&clorofillica, arrivando fino a far ombra sul mare per poi sciogliersi in un verde smeraldino o in un azzurro diamantino.

La natura m’appare per quel che è, fruttuosamente mediterranea, olivo&vite, campi di lavanda rivenduta a sacchetti nei chioschetti di legno e fichi maturi sugli alberi.

Nelle giornate dedicate a distillare il marroncino sulle braccia e a fare splash nell’acqua tonica dallo spessore limpido&trasparente, riscopro il piacere della lettura. Ore intere dedicate ai libri, con lo stampato d’inchiostro a rischiararsi luminoso alle pupille e le costruzioni lessicali a poter vantarsi senza fretta del proprio ardire. “La parte dell’altro”, di E. Schmitt: seicento pagine di slaidìndoors sul cosa sarebbe stata la Storia se Hitler fosse stato ammesso all’Accademia delle Belle Arti piuttosto che… il resto è storia e brividi sulla schiena.

Così tra le isole Pakleni, rifulge Palmizana (o volgarmente Parmigiana, con tanto di annesso riflesso evocativo della gloria melanzana, citazione inevitabile come lo scalcio dopo il martelletto sulla rotula), Jarolim e Stiplanka. Unica notazione di folklore, si nota una certa tendenza invasiva dovuta alla Pummarola Connection From Portici, Castellammare, Piedigrotta e Torri del Greco/Annunziata, in massiccia colonizzazione sull’isola e pertinenze limitrofe, sicchè rimbomba saltuaria qualche notizia della Gazzetta della Sport sul calciomercato del Napoli, proprio dal centro della tranquillità della baia, con svariate MarònneMie e qualche strillo da ruspanza di cortile. Stabilisco la proporzione: ogni dieci presenze sull’isola, due son croati, un altro International e sette son italiani, di cui quattro napoletani, due romani e un resto della penisola.

Sull’isola di Stiplanka, le genti sbarcano in pareo e occhiali scuri, alla ricerca del locale fashion-oriented, univocamente stellettato dalle guide tanto routarde quanto lonelyplanet: il loungissimo e un po’ chillout Carpe Diem, una specie di etnobar costellato da cuscinerie&tendaggi, intagli legnosi e divaneggiamenti da Fiera del Levante enplenair-vista mare e lusinghe intuitive di più Mojito per tutti. M’inibisco e non prendo nemmeno un caffè.

Nei giorni a seguire inizia ad evidenziarsi anche l’approccio con i croati, fin qui fatto di silenzi ineloquenti in una sorta di non do ut non des sicchè campiamo centanni, io con la ragazza mia tu con la ragazza tua e salutam’a sòreta. Non proprio un’ osmosi culturale o civica, insomma.

Probabilmente per via di quel mangiar grigliato cui s’accennava o per asprezza genetica popolare, i croati e le croate sono esteticamente uniformi: piatti e bidimensionali, piallati nell’addominale e spalmati su altezze medie mannequine, sguardi freddi come la muerte o la granita liscia. Ovunque s’intravede un nazionalismo a scacchi biancorossi e refolano bandiere, di cui i suddetti croati&croate sembrano le aste.

Korcula, mare, arte&rustici.

Dopo quattro belle giornate in quel salotto buono che è Hvar, dirottiamo su Korcula, presapendo grazie a ripide letture esplorative che trattasi dell’isola dove nacque (o quantomeno ebbe la seconda casa) Marko Polo - la k è velleità croata.

L’alloggio è anche stavolta meritevole, sempre parquet e bagno in camera, sempre venti euro cadacranio a notte, a venti metri dalla cattedrale e altrettanti dal mare, nel bel mezzo di un vicolo corto cittadino. In più, essendoci la televisione, ricompaiono le Olimpiadi, quantomeno nei momenti di interscambio o nel pre-nanna. La Tv croata insiste su due avvenimenti: il taekwondo, laddove una Martina locale s’è guadagnata un’onorevole bronzo, ma soprattutto il salto in alto, dove la saltatrice Blanka Vlasic, punta di diamante della spedizione croata, è favorita per l’oro. In un pomeriggio di ritorno dal mare, prima della doccia, Blanka conquista l’accesso alla finale, inarcandosi sciolta oltre i due metri, gli occhi belli e congelati nel ricordo di una precedente vita da sogliola, le zampe scattanti e stecche, i movimenti cronomillimetrati, regolari come ipotenuse pitagoriche.

Korcula è isola culturalmente pretenziosa: cinta da bastion fatti di gransassi bianchi, turrita e suddivisa in regolari quadratini di pietra bianca, presenta una pianta a lisca di pesce, laddove dalla piazza Principale si dipartono file di vicoli confluenti su un ovale lungomare, a racchiudere i fianchi cittadini, che immediatamente percorriamo.

Loggiati moreschi, scalinate a semicerchi, una porta cittadina di tutto rispetto, sotto l’insegna del Leone di Venezia, ma soprattutto una bella cattedrale dotata di un rosone importante – Abbazia di Fossanova on my mind – e di un portale lavorato con ammicchi estetici di qualche impressione effettiva.

A Korcula la presenza italiana è un po’ meno accentuata, la proporzione italia/restodelmondo passa da sette su dieci a cinque, in compenso i Korculani, come poi avremo modo di sentire da più voci, anche locali, fanno della scortesia verso quel cazzo di turista che viene a rompere i coglioni, un tratto distintivo fondante. Nei ristoranti, nelle agenzie di viaggio, con camerieri o guidatori di taxi boat e minibus, la solfa è sempre un irritato leggero a tratti andante.

Provo a darmi una spiegazione: contrariamente ai luoghi comuni, le punte di scortesia provengono soprattutto dai più giovani, coloro che all’inizio degli anni 90, durante la guerra serbocroata, erano bambini e forse ciò ha un’influenza sulla visione del resto del mondo.

Sul far della sera, nelle logge merlettate puoi ascoltare l’esibizione canora di un gospel folkolirico gentilmente offerto ai passanti dalla proloco locale.

Faccio amicizia con un filetto di pesce in semplice salsa di vino bianco, con lo sgombro fiero portatore di cipolla, coi lattarini fritti e con delle amorevoli triglie rosargentate che solo se ci penso già sento in fondo all’anima…

L’ambizione artistica si concretizza nelle tante gallerie d’arte, paesaggistiche o naif, che si susseguono a dimostrar le velleità pittoriche autoctone. Altre boutique in sequenza offrono lavorazioni di corallo e tradizionale filigrana d’argento, ciondoli anticati e stelle marine.

Anche qui i Taxi Boat portano per qualche euro di scortesia nelle isole di fronte. Tra queste, Badija, dove approdiamo una normale mattina di sole e surprise surprire, liberi per l’isola ci fanno ciaociao tre cervi molto friendly mentre ci ritroviamo un incanto di riflessi marini a specchio con contorno di natura genuina come aghi di pino e silenzi e funghi, buoni da mangiare, buoni da seccare… ma siamo a Ferragosto e non a Natale. Entriamo in acqua come si scendono le scale di Trinità dei Monti nelle notti di sfilata e rabbrivido di piacere mentre sciolgo le membra sbracciando a stile libero nel mar della trasparenza.

Tutto troppo bello. E difatti Badija in breve rivela l’altra faccia della natura: schiere di tafani bellici dichiarano guerra al turismo e non si limitano a svolazzare di tanto in tanto intorno all’umido dei nostri costumi, ma ci si mangiano proprio, smozzicando a pieni dentoni. Tento la fuga in taxiboat dalla Mosquito’s Island, ma il taxi boat è andato via, e dopo un’ora, appena placandosi questa furia biblica, stabilisco un compromesso sbilanciato di resistenza.

Le sere a Korcula si caratterizzano anche per i bellissimi tramonti, che visti a distanza dallo skyline portuale sembrano infondere un’aureola ossidrica spiccante come cometa sul presepe.

Il salto in alto: Dubrovnik

Lasciata Korcula a bordo del Minibus più scortese che ci sia, puntiamo verso l’alto: Dubrovnik, fulcro che ha fatto leva per definire la rotta del viaggio, interesse primario dopo tanto sentirne parlare.

L’impatto avviene in un mezzogiorno di fuoco.

La pianta della città è chiara dopo dieci passi: Dubrovnik è fatta a V: una lunga&larga strada esibizionista, il cosiddetto Stradùn, domina la città al vertice basso, mentre d’intorno arrivano e dipartono scalinate invicolate, a gradini lunghi ma inesorabili. Dubrovnik è fatta a scale, c’è chi le scende ma soprattutto chi le sale. Intorno le mura, storiche fortificazioni plurisecolari, intatte&compatte.

La gente. Tanta gente. Troppa gente. Anch’io sono gente, sporadicamente mi sento quasi di troppo.

Prendiamo alloggio in un bellissimo appartamentino sulla trequarti alta di una scalinata e via andare.

Purtroppo il flusso intoppa e metà dei vicoli son fin troppo svenduti all’anima del commercio.

Paninonoteche, pizzerie, caffetterie, spaghetterie che si chiamano Toni e Little Italy, offerte di pesce che prendi tre scampi e ne paghi due, un gozzoviglio alimentare in agguato un po’ ovunque.

Più in là intercetteremo alcune guide mentre lamentano ai propri boyscout che il boom turistico non ha seguito adeguata pianificazione, che le crociere arrivano a botte di tre per volta nel porto riversando condomi&condomini di turismo mordi&fuggi, che mentre prima ogni costruzione avveniva seguendo una regola per l’omogeneità degli assemblati architettonici, oggi ognuno costruisce nottetempo, soppalca e cura fondamentalmente i cazzi propri, economicamente intesi.

Ciòddetto, tutto il resto è bella calligrafia.

Lo Stradùn s’apre sul fondo con il bel loggiato, le chiese vanitose per via di rosoni&mosaici, vetrate e marmi bianchi e poi la fortezza veneziana, i due chilometri passeggiati sulle mura, i belvedere a picco sul mare, la farmacia più antica d’Europa con il suo chiostro solare, le fontane, il ghetto ebraico e gli scoscesi in pietra... e come tutti sanno o facciamo finta che sappiano, coi segni delle bombe, di cui una in bella vista sotto al buco procurato nella storica farmacia suddetta. Una informativa appesalmuro municipale evidenzia ai passanti la mappa dei tetti bombardati nel 1992 dai serbo montenegrini: almeno il sessanta per cento, riconoscibili dai mattoncini rossi nuovi nuovi, come appare dall’alto delle mura.

Oggi tutto ricostruito, per via della corsa solidale al restauro di questa Viceregina dell’Adriatico, Venezia permettendo.

Al tramonto, la città è attraversata da banditori in costume d’epoca, che s’apprestano ad alabardare le porte della città.

Nottetempo incontro in tv un reportage sull’allenamento tignoso di Blanka Vlasic: è già febbre dell’oro.

Il mare di Dubrovnik, forse in quanto esterno alle mura, risulta meno protetto dalle invasioni: la spiaggia in particolare è un tappeto di sigarette malgrado il profondo blu.

Ripassiamo tutto il periplo della città con la calma di chi ha fatto già il primo giro e, sarà che la gente è diminuita sarà che l’occhio è felice della sua parte, mi sento come un turista tedesco a Firenze: non me l’aspettavo e ripeto non me l’aspettavo (cit.). Seduto sotto la loggia, guardo lo Stradùn e sono contento.

Incornicio le sensazioni con una splendida orata alla griglia e un primordiale polipo sincero come il gusto di stare in vacanza.

Sarebbe quasi ora di dormire, ma Blanka sta attendendo il suo salto finale. Fiera e tecnica, salta con disinvoltura asettica tutte le misure senza un errore. Stacca le ultime concorrenti come si scaccian i tafani ed entra all’ultimo salto in concorrenza con una tenace belga che porta gli occhiali e sembra Henry Potter. Blanka si concentra, annuisce all’allenatore quasi a rabbonirlo per i suoi superflui consigli e s’inarca sogliola coi suoi occhioni freddi e l’addominale piatto. Eppure… l’asticella insolente accusa uno spiffero e imprevedibilmente viene giù. Henry Potter che non se l’aspettava, e ripete non se l’aspettava, consulta il suo libro di trucchi e … fa il proprio record. Scende giù sottile e spilungona, senza asta ferire. Blanka strabuzza, si concentra, ripassa una sequenza mentale e riprova una volta, riprova due… ma sarà più fortunata. E’ argento, freddamente argento e con lei tutta la Croazia paga un vizio d’arroganza, almeno ai miei occhi.

Di primo mattino dopo due giorni ripartiamo, con una meravigliosa sorpresa per il senso della vista: alle sette del mattino lo Stradùn è vuoto, non c’è nessuno, si vede l’inizio e la fine ed è tutto uno scintillio dell’alba.

Starigrad, un borgo apart.

Torniamo sull’isola di Hvar per gli ultimi due giorni nel luogo della ripartenza, ma stavolta restiamo decentrati e ci fermiamo a Starigrad, borgo pescatore se non proprio sturistico, quantomeno alleggerito dalla massa. Alloggiamo per un prezzo modesto presso una signora che sembra tanto la Zia che viene dalla Bosnia.

Starigrad è una sorpresa. Come le più titolate località sin qui viste, conserva filari di case in pietra, pavimentazioni lastricate e piazzette da bianco&nero di Cartier Bresson, con apertura su una baia insenata profondamente nel mare, dove alle otto di sera ruba la scena un tramonto a cannelloni d’arancione su azzurro strappato e il sole sparisce rosso come dire me ne vado addormì.

E senza sbandierarsi sui prontuari per l’erudizione turistica ma solo per gli occhi di chi ci entra, un paio di chiese si fanno apprezzare. Accanto a loro, il piccolo Castello dell’Umanista locale Petar Nonmiricordovic, col giardino botanico e la vasca degli scorfani. Petar, ammiratore dell cultura italiana, mise a disposizione della popolazione locale la propria tenuta, ma fece anche qualcosa di più: commissiono a Tintoretto una Deposizione che si può ammirare nel Museo del Monastero Francescano – e te pareva – come se fosse un’imprevedibile evaso dal Louvre, come se fossimo nelle nicchied’arte di Umbria o in Toscana ma così non è e siamo in un borgo marinaro di tremila anime dalmate. L’amenità del luogo lascia che sia ancor più evidente il taglio bianco del corpo di Cristo sulla tela.

Come in una botte piccola, anche Starigrad conserva il suo vino buono, un vino aromatico che ricorda la Retsina greca e che accompagneremo ad ulteriori scoperte culinarie.

Nel mio ristorante mentale, non potrò fare a meno del carpaccio di tonno e capperi assaggiato a Starigrad. Mi concedo qualche sofisticheria e apprezzo le alici fritte in salsa tartara ma ancor di più la macedonia di frutta con profumo di lavanda e prendo nota di un dolce semplice quanto mediterraneo: i fichi arrosto con il miele. E son contento, ancora una volta.

A Starigrad facciamo gli ultimi bagni di sole e di mare.

La costa è anche qui accompagnata in spiaggia dalla pineta e finisce con una piattaforma di cemento per agevolare l’entrata in acqua, come spesso accade in Croazia. Che detto così, la piattaforma di cemento sembrerebbe pure brutta, ma la realtà è ben diversa, in quanto l’invasività è minima e la fruibilità confortante. Intorno molti a lèggere, qualche casetta nel primo entroterra e qualche spogliatoio pubblico gentilmente offerto dalla proloco locale e io che da italiano non son più abituato a veder comodità di libero accesso, ne resto quasi commosso.

C’è qualcosa nell’Adriatico balneare di Starigrad che ricorda la convivenza di libertà, semplicità e natura che poteva esserci nel 1979 a San Benedetto del Tronto o a Vieste sul Gargano.

Leggo qualche pagina de “Le Cronache di Travnik” di Ivo Andric, velleità letteraria che mai avrei potuto accostare nella routine oscurantista dei giorni feriali cottimizzati e …

…e basta, si torna a riprendere la macchina a Pescara, dall’altra parte dell’Adriatico.

Ma va bene così. Ho respirato aria buona.

Profumavi di gelsomino e ballavi sul mare per me eravamo senza un quattrino, c'amavamo davvero io e te, era accesa una televisione, i sogni più più grandi di me. Diamantina sotto il cielo nero nero come te ti ho amata, ti ho baciata, come tu hai amato a me, i tuoi occhi come fuochi accendevano in me quell'amore che donasti a me. Un lavoro dopo la scuola, non potevi volere di più ma si cambia, il tempo vola, tu volevi volare di più e il tuo nome in Diamantina per gioco l'amore cambiò. Diamantina sotto il cielo nero nero come te ti ho amata, ti ho baciata, come tu hai amato a me, i tuoi occhi come fuochi accendevano in me quell'amore che donasti a me. E l'azzurro Mediterraneo cui in giorno dicesti di si dal tuo mondo contemporaneo, vedrai, ti riporterà qui al tuo mare di gelsomino, al giardino che c'innamorò. Diamantina sotto il cielo nero nero come te ti ho amata, ti ho baciata, come tu hai amato a me, i tuoi occhi come fuochi accendevano in me quell'amore che donasti a me.

(Diamantina, inconcepibilmente Alberto Camerini)