Saturday, October 01, 2011

Rodi et Amo (“Canavaro, Canavaro mio!” )






































Ferie d’agosto, ferie popolari, ferie turistiche, ferie ferine, ferie alla ricerca del tempo perduto, c’eravamo proprio tutti ed eravamo davvero tutti accaldati, in procinto da una vita e insomma infine in partenza, dai principali scali low cost verso le patrie interiori, basta che ci sia posto.

Rodi Island non dista poi tanto, è dietro l’angolo se ci vai volando, molto più vicina dell’uscita Flaminia, venendo dall’Appia, in un normale giorno di traffico sul GRA. E allora giriamolo quest’angolo, passo passo, kalimera kalimera, bentornati in Grecia, o’sole mio sta n’front’a’ttè e sempre caro mi fu quest’arso caldo.

Diciamolo subito, non ci sono colossi ad attendere i volatori all’aeroporto, ma una schiera di taxi, una striscia nera d’asfalto che porta in città, correndo in parallelo ma senza mai incontrarsi, se non forse all’infinito, con una striscia celeste di mare, un odore di origano e pino silvestre che s’infila insupertrafra i finestrini e la percezione della dimensione, questa sì colossale, di un piano regolatore che ha celebrato l’avvento del cemento armato, alzando le braccia in segno di resa.

Distesa su una punta di mare, il cuore di Rodi è ancora oggi protetto da una doppia cinta di bastioni, per i turcomanni di ieri e da un fossato, per i palazzinari di oggi.

Che siano porte di servizio o ingressi principali, un’anticamera di fiaccole prelude all’entrata turrita, che non si dica che stiamo entrando in suburbio di fortuna, qui è passata la storia, quella con la S maiuscola che insegnano i Gran Maestri, di cui vediamo il castello, con i bellissimi mosaici bizantini, il gruppo del Laocoonte, le sale sorrette da arcate d’ingegneria cortese e una mostra dedicata ai vestiti di scena della Callas, riprodotti con lattine d’alluminio, che se vi sembra trash, ricordatevi che in Grecia c’è pur sempre la crisi. E quando io senza guardare ho detto “oòops!”, poggiando il piede su un battiscopa pericolante, quello fortunatamente ha dondolato e ridondolato, ma non se n’è venuto giù con tutto il palazzo.

La Via dei Cavalieri, che fu la strada delle ambasciate, con i ricoveri per gli emissari delle potenze mercantili che furono, è la via che consegna a Rodi Town la sua speciale presenza nella storia delle bellezze europee. Ciottolosa e pedonale, ripida e soleggiata di giorno, un classico dell’ eleganza di sera, quando sfila illuminata dalle sole lanterne a muro.
Il resto son filari di stradine e fontane moresche, gatti stradaioli, edifici nobiliari e bovindi panciuti, minareti e passaggi filtranti intra muros,la Moschea di Solimano e l’Ospedale dei Cavalieri, gatti pezzati di giallo e di nero, quel che resta d’acropoli elleniche e quel che resta di basiliche romaniche, portali in pietra levigata e antichi quartieri ebraici, gioghi d’archi, gatti ocra, piazzette dietro l’albero e palazzetti all’angolo, buganville e vasi di fiori, dedali refrattari e logge veneziane, torri dell’orologio senza tempo, ancora altri gatti, un calpestio interminabile di turisti che sgattaiolano e l’intero pianoterra cittadino adibito alla vendita al dettaglio di tutto ciò che sta tra la lettera A di argenteria e la Z di zaziki. A special prize for you, s’intende.

Fuori dalle mura, il porto di Mandraki, primo approdo d’approccio alle velleità civili d’Europa per chi veniva dal molto vicino oriente, che sta ad un tiro d’orizzonte di distanza, se è vero com’è vero, che ogni sera il sole va a morire incendiandosi dietro le coste turche (diffida dai greci quando portano doni).

All’ingresso, due colonne sormontate da cervi sostituiscono l’idea che uno s’è fatto di dove sarebbe stato il Colosso. Costeggiando il molo, s’arriva all’edificio modernista del casinò e ai Grandi Hotel, retaggio recente di un passato coloniale che legò l’isola all’Italia dal 1912 agli anni ’40, sicchè ancora oggi ai più vecchietti tra i vecchietti non dispiace regalarti qualche parola d’italiano, a testimonianza dell’io c’ero e se non c’ero, c’era mio padre e comunque avevo studiato. Balaustre e lampioni, balconi smussati e ringhiere di ferro, spuntano d’improvviso e annodano Rodi con le città di fondazione dell’agropontino, che ci piacerebbe di sicuro a Pennacchi, indagare la koinè architettonica, quìddove s’ aggiornò al secolo breve, l’una-faccia-una-razza originato in Magna Grecia, quando i secoli erano secoli di un certo spessore cronologico.

Se per apprezzare Rodi Town, meglio rimanere nella città vecchia e citati dintorni, per cenare invece, meglio uscirne e non troppo distante da un dintorno sulla mappa ad ovest, cercarsi la via Georgiou Leontos, dove qui mi segno, l’ottimo nome di Kerasma, buon rapporto qualità/prezzo, le olive minuscole di Creta, polpette di zucchine, saganaki cheese, sole-fish con patate fritte in casa sul momento, raviolini rodiesi con diversi ripieni, tutti d’amore, e le tipicità corrispondenti a quanto uno s’aspetta, altrettanto ben fatte, tra cui menzion d’onore all’insalata greca.
Da Rodi Town, giovandoci del buon servizio di autobus dell’isola, è facile raggiungere la spiaggia di Afandou. Per otto euro giornalieri, prezzo unico in qualsiasi parte dell’isola e a qualsiasi ora, ombrellone e due lettini davanti ad un mare profondamente azzurro, penetrato dalla trasparenza, dove l’acqua raggiunge i 26 gradi e si nuota sbracciando benessere.

I Prigionieri di Pefkos.

Fatti i dovuti carotaggi turistici su google map, vagliata l’offerta di paesini e le convenienze latitudinali, optiamo per Pefkos come base per il lancio esplorativo sulla costa orientale.
Il percorso in autobus ci mostra il mostro di Faliraki, località prediletta dal turismo under 30, prevalentemente nordeuropeo. Come una Las Vegas di periferia, si susseguono Alabama Restaurant, Mexican Posadas, Chinese Paradise, night club con enormi sagomati di donna all’ingresso, la caverna di Fred Flinstones con tanto di macigni di pietrapesta in bella vista, discoteche della jungla dove si accede attraverso un’enorme bocca di tigre e una filiera di Hotel a venti piani e due vele. Ovunque una promessa di cocktail a buon mercato e un sottinteso che forse si scopa. La sensazione è che però,da un paio d’anni i turisti siano fuggiti da lì, non me la sento di biasimarli.



L’arrivo a Pefkos è fatale. Depositati sotto un gigantesco ristorante cinese, affiancato da un ristorante italianofilo (try our pizza - barbecue!) e spalleggiato da uno Sky-pub per anglossassoni, siamo circondati dal rodismo dilagato e certo non aiuta la canicola ferocemente greca dell’ora di pranzo. Pefkos ha una strada principale, su cui si riversano a secchiate ristoranti a destra e sinistra, gelaterie, maximarket, rent a car e un centro specialistico di benessere podale, dove al turista è offerta la possibilità di eliminare ogni pellicina residua dei propri piedi, immergendo la zampa in un parallelepipedo d’acqua, grazie agli innocui morsetti del pesce Garra-Rufa, il cui karma prevede in tal modo di sublimare l’invidia del piede.
Chiediamo room for rent nell’unica agenzia aperta e ci viene detto che c’è un minimum stay di tre giorni, un giorno nello studio, guarda caso, del nostro informatore (70 €) e due altrove (50€). Prendere o lasciare, gli sventurati risposero, si. L’alloggio è spazioso, finanche più grande di casa mia a Roma, ma infossato su strada e con affaccio sulla tremenda piscina in cui gli anglosassoni, already gamberizzady nel primo dì di sole greco, suolgono consumare le ferie residue. C’è qualcosa che non torna: la Grecia.
Né, per dire, si può uscirne troppo, come scopriamo subito dopo: motorini tutti affittati per tre giorni, macchine pure. No easy way out.

Chiediamo asilo turistico al mare, che è bello anche lì e di sera ci dirigiamo nella vicina Lindos, nel tentativo di riprenderci qualcosa. Gioiello promesso dell’isola, piccola città d’arte e di tesori archeologici, Lindos chiarisce che se promette, poi mantiene: una Positano ellenica, altrettanto colma di boutique ma suggestiva ad ogni piè sospinto, amena nei vicoli, e soprattutto incoronata da una luminosa acropoli, che da almeno duemila anni testimonia la grandezza della civiltà prima dorica e poi ellenica.

E’ solo un rapido approccio, torniamo a Pefkos per cenare e scoprire che di qualche decina di ristoranti, il cappello sulle ventitré non lo mette nessuno, chiudono le cucine e quel che resta resta, magnateve sto suvlaki bruciacchiato, karistò, turistikò. Prospettiva di tre giorni così. A questo punto, prendo la decisione di entrare in politica, conquistare il parlamento, risanare l’Italia, conquistare per merito l’assise principale all’Onu, favorire la distensione internazionale, risolvere i problemi del medio-oriente, promuovere un clima da nuova età dell’oro in economia e cultura, ma, purtroppo, affermare contemporaneamente dinanzi al mondo la necessità inderogabile, come contropartita indispensabile, di bombardare Pefkos col napalm.

Pefkos, Mòn Amour.

E invece cambia tutto. L’indomani cambiamo alloggio e approdiamo agli studios di George, un kilometro di separazione dalla diffusione commerciale. George arriva di buon umore con un sorriso cordiale e ci accompagna al nuovo alloggio, stanzetta con bagno, e un patio con due sedie e un tavolino, intorno due alberi di limone e piante di ibiscus, appena fuori le sue piante di vite, di fichi e di pomodori, perimetrate da buganvillee, multicolor d’ibiscus e a duecento metri il mare. Da ogni spazio visivo, rimossa cartellonista, merchandising, advertising, magnamagnaising e specialprizing. E’ di nuovo tutta campagna. E’ di nuovo Grecia.

Sicchè rinfrancati, ci diciamo ‘tanto vale andare a Lardos, che troviamo il motorino’ e via col bus per l’adiacente Lardos, alla recherce de lè motorèn perdùt. Qui, grazie all’aiuto di una ristoratrice italiana e alla cortesia di una sua amica tedesca, veniamo accompagnati per vari tentativi, fino a trovare un pègiottino rossò bordò, nanànna nanà na-nànna … e vai col tango.
From Lindos / to Lardos, così raggiungiamo Glystra Beach, insenatura meridionale dell’isola, dove di verde&celeste il mare si veste, che stando alle intercettazioni ambientali raccolte in loco da turista partenopea, rispetto a Glystra, “La Anthony Quìnn è solo più nominata”.

Già la Anthony Quinn Beach, la più celebre spiaggia dell’isola che per ora abbiamo saltato, intitolata al protagonista di Zorba il greco, un mito nazionale, che a Rodi ha dato il nome alla baia dove girò “I cannoni di Navarone”. E proprio ‘Zorba il greco’ è il mio compagno di letture, en pendant colla geografia dell’anima, e mentre scalo le pagine, tutta la Grecia mi sembra prendere la faccia di Anthony Quinn, vitalismo e tragedia greca in tre parole, “Canavaro, Canavaro mio!” e un suono di sirtaki che non finisce mai di sorprenderti alle spalle e da lì al corazòn, Zorba, al corazòn. “Ci vuole un pò di pazzia se no non potrai mai strappare la corda ed essere libero.”

Liberi liberi sul motorino, nei giorni sveliamo l’isola per quel che merita. Incominciando da uno dei posti più belli: la Saint Paul’s Bay. A picco sotto la maestà dell’Acropoli di Lindos, riparata da un porticato roccioso, la baia lascia trasparire tutto il suo irenico azzurro sereno&celeste. Accanto, per gli affari suoi, una chiesetta minimal ricorda l’antica visita di San Paolo, che, waiting for letters dai corrispondenti Corinzi, giustamente si sarà pure fatto due bracciate di gloria, perché, come diceva egli stesso “solo chi ha gioia nel cuore, può dare gioia agli altri” (o qualcosa del genere, che vado a braccio laico).

Già dalla baia di Saint Paul è chiaro un dato poi confermato del mio personal censimento turistico estate 2011: su dieci turisti, 3 son nordeuropici, 1 è autoctono e 6 sono italiani. E fra gli italiani, ogni dieci, 1 è vario ed eventuale (inclusi cinesi di Prato), 2 son romani e 7 son da napoli&dintorni. Già, sorpasso clamoroso sull’autostrada del sole. E Lindos è una Napolindos. Ne sono testimonianze le soventi grida gennariche e concettine, i continui eh yà rivolti a pasquale affinchè guardi bene che tuffo, il sentimento diffuso che quest’anno manca un centrale difensivo per Mazzarri e la tendenza a gemellare il proprio ombrellone con quello accanto, preludio all’arrivo di cugini e cognati, nuore delle zie, comari dei generi e dicett’iss se ci fate fare un frangiflutto a riva - ma certamente fate pure – poi ci chiediamo l’ampliamento e ci costruiamo accanto una pizzeria di vera bufala emigrante e infine facimm’ ‘ngòpp o’mare la villa, comm’a’quella di Scarface. Questione di DNApoli.
Eh jà, stong’pazziann’.


Vira invece sul celeste brillante, compatto e non sfumato, la Lindos Main Beach, lungo spiaggione anch’esso protetto da due braccia di roccia, ampia offerta ristoranti vista mare e Cielito Lindos.
Una sorpresa tutta nostra invece è la spiaggia dell’Hotel Mitsis Petit Palais (tra Lindos e Pefkos), privata e quindi poco frequentata, tranne dai ricchi ospiti dell’Hotel e da rari abusivi come noi, Cesaroni che se’nfilano into Le Ferie degli altri, mimetizzandoci sotto l’ombra di un fico e, alle prime ore del mattino (insomma, le 10), scopriamo un mare maldiviano, cristallino con tratti verdi smeraldigni e opalescenze di bianco, in felice iridescenza su spettro indaco, dagli occhi del cielo.

E poi c’è Lindos Town. Bianca e arroccata sul mare, un saliscendi di scalini che finiscono in estuari panoramici, tornite chiesette ortodosse, soglie fregiate e ritagli bizantini, asinelli che t’inseguono per i vicoli e all’apice di un kappadùe di scalini, s’arrocca l’Acropoli, fin dall’esordio orientata per agguantare sul nascere il sole mattutino, come si conviene ai propilei del santuario di Atene Lindia, oggi controdifesi anche da una successiva&cavalleresca cinta muraria castellana. Da qui, quando il mediterraneo era alfa e omega del mondo, i Dori partirono per fondare Agrigento e Gela, mentre ancora in Sicilia si viveva d’agrumi, tanto per dire. Durante il governatorato nostrano, il Genio Archeologico Tricolore, con italica perizia, ha contribuito a restaurare il proscenio e risparmiando anche un po’ sui materiali del restauro, con italica parsimonia.

George e la pianta del cappero.

E alla fine di ogni tappa, è bello ritornar nello studio di George, per vedere come muore un tramonto nel Dodecanneso, tra gli spargimenti ossidrici d’arancio e le alternate aperture degli ibiscus.
E prima di cenare, prendiamo l’abitudine di chiacchierare con George, che ci prende in simpatia e, grazie anche alla reciproca mal padronanza della perfida lingua d’Albione, ci racconta cosa sia la crisi in Grecia ("katastrofè!"), ci chiede confronti con l’Italia, ci prende in giro per gli italici bungabunga e ci da i suoi pareri sui posti da vedere. E poi, visto che si chiacchiera tanto bene, va a prendere la bottiglia di raki, ellenikè grappè distillata da lui stesso, che si beve con gli snack e che a Creta, da dove lui proviene, bevono anche i bambini di dieci anni, per cui non ci provate a sottrarvi, omini o donne che siate, e anzi, vado a prendere il mio formaggio cretese e già che ci sono qualche pomodoro del mio orto, la pianta del cappero e un altro brindisi, come si dice in italiano, in greco Yamàs, che è l’augurio della cosa più importante, la salute. Pure in italiano? E’ uguale! Prendi, assaggia, bevi, qui si sta bene e Yamàs! Così ci racconta della sua vita, del lavoro che faceva prima d’andare in pensione, delle difficoltà dei suoi figli e di cosa è importante davvero. George è anche un po’ il nostro Zorba. Scambiatevi una pianta del cappero in segno di pace.
Sicchè, spesso la sera, incrociandoci al rientro, parte l’invito: “Paolo, stasera Raki?”
Ci fa conoscere la famiglia, di nuovo ci ospita per qualche bicchierino, mi insignisce del riconoscimento di “Strong glass”, che vuol dire che reggo bene, grazie, confesso che un po’ già ce lo sapevo, e ci racconta che in realtà lui non potrebbe proprio berli quei bicchierini e proprio per quel motivo che porta a dire oggi che l’importante è la salute, ora mi spiego perché mi chiama solo quando non ci sono la moglie o la figlia, e poi la mattina ci omaggia dell’uva o dei fichi del suo orto, che mi porta a vedere e che è ora il suo rifugio di pace e l’ultima sera ci invita direttamente a casa, insieme alla famiglia, sulla veranda interna che da sulla baia e allora yamas! con raki, pomodori, il salame, il formaggio, le freselle cretesi, la torta homemade e la confezione di baklava, che perfino ci regala al termine della cena. Grazie di cuore George, quel che ci era mancato all’arrivo a Pefkos, ce lo hai restituito con la tua ospitalità, cretese, perché i rodiesi non sono così, chiarisce. Non lo so se però ci riusciamo a spedirti la porchetta, è un po’ più complicato di quanto pensavamo, però se torno a Pefkos, stai sicuro che veniamo da Te.

A completare l’idillio con Pefkos, la riappacificazione con l’offerta culinaria, grazie alla Taverna di Nikolas, cinquanta metri dall’alloggio, un posto dove piantare le forchette e smettere di cercare altrove. Lamb Kleftikò (agnello infornato alla maniera dei briganti), bifteki delizioso e tutto l’ottimo della tradizione, per chiudere con l’omaggio di un ouzo rosa, un indirizzo a botta sicura su Pefkos.

R’odi et amo.

Essendo Rodi estesa per lungo e anche un po’ per largo, ai giovani-esploratori-tobia si conviene anche il noleggio dell’auto, che per essere onesti – condizione incompatibile col detenere un rent a car a Pefkos – converrebbe prenotarsi sul web, magari direttamente dallo sbarco a Rodi Town. Ma noi siamo ricchi dentro e quindi, come dicevano i pet shop boys, we pay the rent e anche go west, nìna-nìnannà.

First we take Prassonissi, punta meridionale dell’isola, laddove vengono a combaciarsi l’Egeo tumultuoso ed il Mediterraneo sereno, due occhi di uno stesso mare, due viste di un unico sguardo, comprendendosi come in un tao, al termine di una lunga spiaggia ritirata dal mare, mentre i volatori d’aquiloni e di kitesurf riempiono il cielo d’evoluzioni e nuance di colore in ascesa libera. Sicuramente tra i punti più suggestivi dell’isola.

Carovane di turisti non sono ancora partite alla Conquista del West rodiese, selvaggio e continuamente sfrangiato dalle onde, che arrivano sugli scogli rumoreggiando di scontri elettrizzanti ed energia celeste, protette da un filo di dune, mentre dall’altro lato è entroterra selvaggio, West Coast e Foresta Umbra.

Saliamo per questi picchi, incontro ai villaggi appartati dell’interno, dove il panorama è d’alta quota e la taverna è popolare, è più facile cenare che trovare un cazzo d’ottico per riparare gli occhiali che mi parte una stanghetta e qui censuro le reazioni all’accaduto, ma torniamo a noi, che attraversiamo Monolithos, col suo castello oramai diroccato ma che un tempo sapeva dire “Non passa il turcomanno”, l’agreste Siana, coi suoi chioschi di miele a sostenere l'ekonomia agroturistikà ed Embonas, ferma agli anni sessanta, che son la media dei suoi abitanti e dove c'è il più alto numero delle suddette taverne.

Quaranta minuti di discesa tra jezzemani d’ulivi e si torna al versante noto ai più, dove il mare è placido, domingo, sabato e tutti i dì.

In questo interno boschivo, un tratto di notorietà viene reclamato anche da Epta Piges, il luogo delle sette sorgenti, dove i depliant narrano di giochi d’acqua naturali, verde festa della natura e safari ornitologico. In realtà i lavori di convoglio delle acque in un artificioso laghetto e la secchezza di stagione, ammazzano notevolmente il fascino del posto, derubricato a trekking postprandiale, se non fosse per le strilla di uccelli, che fanno tanto urla nella foresta di Lost e noi Jack&Kate d' alta stagione.

Poco da dire, se non fosse per il tunnel che collega il bosco al laghetto. Un tunnel di cemento grigio, alto un metro e ottanta scarso e largo quanto basta per non passarci affiancati in coppia, con l'acqua torrentina a freddare le caviglie. Un soprassalto di vabbè proviamoci mi spinge ad andare, nonostante non si veda la fine, anche un po’ per la stolta temerarietà di misurare la mia presunta claustrofobia. Che dopo venti passi nell’oscurità che andando più s’annera, non è più presunta mang’p’ò’cazz ed è invece certezza ansiogena. Per contro, indietro non si torna, date le dimensioni del tunnel e il senso unico. Per fortuna con me c’è chi mi fa strada, mentre già si sente l’eco di alcune scomposte ruvidezze verbali che mi partono giocoforza. Dopo cento metri, s’intravede una luce e penso che vabbè, allora sono salvo. S’arriva al punto di luce, ma non c’è sbocco, solo imbocco, in un altro tunnel, altrettanto cieco e vieppiù da vietcong. Cento metri più in alto, un fottuto John Lock s’affaccia da una grata e cerca di capire cosa c’è sotto, come se fosse al termine della prima serie di Lost. Preso respiro e pronunciati due sfondoni, mi rimmetto nel tunnel, ancora più buio, dove si fa fatica a vedere i pantaloncini bianchi di chi mi sta venti centimetri davanti. Sbuchiamo dopo altri cento metri e lancio il mio saluto a tutta la consorteria dei trapassati rodiesi, tanto più che al termine c’è solo un laghetto che sa di pozzanghera ed un cartello che indicava la via pedonale alternativa al tunnel, dieci metri più in là.


Mentre passiamo rapidamente per il villaggio marinaro di Stegna, dove il mare fa scintille ma insomma, non arriva a figurarsi la rima, incontriamo Archangelos, paesotto d’entroterra arricchito d'un bel monastero coi mosaici geometrici, dove è bello dedicarsi al fotopoping, sempreverde moda turistica, avendo presente che un pope runo non fa male a nessuno. Qui c’è vera vita paesana, zingari che sospingono carri di mercanzie, taverne dove da anni son parcheggiate lambrette sul davanti, e case colorate. Tappe di un percorso che porta all’Agati Beach, altresì nota come Golden Beach, per il brunire aureo della sabbia, degnamente coronata da un mare brillante e accogliente, che vale una segnalazione particolare.
Nei giorni seguenti, ancora molte son le spiagge belle, come lo scenario della Tsambika Beach, a patto però di percorrerla fino ad arrivare al piè montano, dove sbianca la sabbia, si purifica in bagliori di cielo la trasparenza dell’acqua e veglia un costone sorvegliato da capre in arrampicata libera su spuntoni impraticabili. Difficile mettere i ricordi in graduatoria, ma tra le prime tre spiagge, Tsambika c’è.
Poco ci manca ancora e già siamo soddisfatti del bottino di mare.

Quand’ecco un dubbio ci assale. Ma vuoi vedere che non vediamo proprio la Anthony Quinn Beach? E se ci perdessimo qualcosa... E si, ci saremmo persi qualcosa, la più bella spiaggia dell’isola. Alle pendici d’un monte, affiancata dalla gemella Ladiko bay, la Anthony Quinn Beach ripropone tutto il bello fin qui visto, aggiungendo una cornice di alberi che riflettono il proprio verde silvano in confusione mistica con l’azzurro del mediterraneo e la nitida chiaroveggenza del fondale, senza farsi mancare alcuni scogli a creare passaggi e porticati marittimi. Che ti dimentichi pure della folla che c’è, perché all’Anthony, il consesso di bagnanti effettivamente fa densità.

Sicchè è tutto finito, ci accomiatiamo da George coi ringraziamenti solenni per l’ospitalità beneficiata e facciamo giusto in tempo a scoprire che anche la spiaggetta praticamente privata di Pefkos, non ha nulla da invidiare agli altri posti visti, anzi, s’offre languida ai pochi bagnanti, che l’ultimo splash non fa rimpiangere il primo.

Torniamo a Rodi Town, per le ultime scoperte, che non sono proprio le nostre ma son quelle custodite al museo archeologico, ospitato nell’ospedale dei Cavalieri. Non è un museo di poco conto. Sindrome ellenica immediatamente sollecitata dinanzi all’Afrodita che si pettina i capelli, movimento cromatico e marmo bianco, e poi i Kuroi con la loro esuberanza giovanile in gara coi fauni. C’è il fantasma dell’opera di Fidia che circola nelle stanze e ci sono anche le addette al museo che inseguono chiudendoci le porte alle spalle dopo il nostro passaggio stanza per stanza, che hanno fretta di rientrarsene a casa dopo il dì feriale. Non prima però d’aver visto coi nostri occhi le ceramiche e le anfore che dai motivi geometrici passano alle rappresentazioni figurative, man mano che la civiltà ellenica s’espande e fiorisce mentre Pericle s’inventa la democrazia. Un liceo classico sotto teca, al museo archeologico di Rodi.

L’ultimo giorno, lo dedichiamo alle terme di Kallitea. Complesso dedicato al benessere sulfureo e parasintomatico lenimento, fu rialzato su rovine soprastanti dal Genio Termale Italico durante il governatorato. Come dimostrano le foto d’epoca, i rodiesi s’affezionarono molto al posto, traendone beneficio e picnic, mentre più d’un regista, tra le tonde forme e le porte orientaleggianti della struttura, ambientò scene esotiche e anche un po’ lunari, a stile liberty nel mar dell’entertainment. Acconchigliata intorno all’edificio si apre una spiaggia tanto piacevole quanto comoda, di benessere verde marino, oggi dal vago ammicco un po’ lounge&club sandwich.

Tempo d’un caffè greco, quindi non proprio d’un espresso e Rodi scorre via, ringhiottita sulla via dell’aeroporto da tanto di quel cemento che non si vede come sia possibile non ospitarvi l’intera emergenza demografica nordafricana. Ma la Rodi che ci siamo andati a cercare è stata un’altra cosa, discosta e fascinosa pur nel brulichio di varia umanità in libera uscita agostana.
E la controprova è in quel desiderio residuo di Grecia, che resta in petto già al momento del decollo del low cost, che ci porterà alla fine di questa vacanza. Zorba rimane lì, ormai immortale sullo sfondo.

http://youtu.be/690_48tCzfE



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Monday, October 11, 2010

SanTurkini 2 - Istanbul and Constantinople


Arriviamo all’Aeroporto Ataturk di Istanbul nel primo pomeriggio del 4 agosto ed il primo impatto sociale è quello con una struttura moderna, pulita ed efficiente nei servizi, come il recupero bagagli, o il collegamento con il centro della città, poche lire (1 € = 2 Lire) per prendere metro e tram e giungere nel cuore di Sulthanamet proprio mentre la voce dei muezzin richiama dall’alto dei minareti i fedeli alla preghiera della sera e me alla prima meraviglia.

Durante la permanenza ad Istanbul per l’organizzazione degli spostamenti, per la scelta dei ristoranti, per i suggerimenti sulle escursioni ci sarà utile fonte di consigli il blog di scoprireistanbul.com, che consiglio ad ogni partente per migliorare l’organizzazione ed alimentare le proprie curiosità.

Ci sistemiamo nel comodo alloggio dell’Hotel Apex Boutique, pulito, economico ed accogliente come da recensioni su Booking, dove l’ospite viene accolto con la frutta fresca in camera e il cestino delle bustine da thè, il bagno è ampio e il letto in stile ottomano.

L’approccio centripeto mi dona come prima immagine e copertina del memoalbum lo splendido faccia a faccia tra la Moschea Blu e Santa Sofia: Istanbul and Constantinople.

Sultanahmet comprende il cuore monumentale di Istanbul, esibendo le memorie di imperi secolari e le dimostrazioni d’effetto dei Sultani ottomani. Incontro innanzitutto la maestosità della Moschea Blu con il vanto esclusivo dei sei minareti, assoluto riferimento panoramico nel cielo di Istanbul. La ricchezza di quest’edificio di culto, quasi coevo al Rinascimento italiano, si deve soprattutto alle ceramiche blu di Iznik che illustrano le volte e al lavoro antico dei maestri calligrafi e miniaturisti, le cui ristorazioni di grappoli d’uva, frutta e natura, comunicavano la fertilità ubertosa dell’eminenza ottomana.
Chissà dove andarono a dormire la sera che fu terminata la Moschea Blu i muratori.

Antistante alla suddetta grandiosità, resiste Santa Sofia (o Aghia Sofia), a perenne gloria che fu di Costantinopoli, ben prima dell’avvento turco. Edificio del 500, porta tanti secoli quanto pesa, 1500 anni d’arte grecoromanica e bizantina sopravissuta alla trasformazione in moschea, alle guerre, agli incendi e ai terremoti e preservata oggi sottoforma compromissoria di museo. Archetipo degli archetipi, a Santa Sofia il genio umano s’inventa l’architettura della cupola, mille anni prima di San Pietro e altrettanti prima che la moschea di Solimano restituisse la pace cittadina all’invidia ottomana, superandone il diametro di curvatura. Entrare a Santa Sofia è come entrare nell’Argan di storia dell’arte. Lo splendore dei mosaici bizantini contiene un residuo di spiritualità ancestrale, realmente unica al mondo, insita nell’aureola mistica&artistica di quel Cristo e di quella Vergine,di San Giovanni Battista, permanentemente istoriati a vive tessere d’oro. Per chi viene da Roma, son poche le chiese capaci di destare pari scatto d’intensità emotiva.

In mezzo alle due mammesantissime monumentali, scorre la vita secolare di Istanbul, allargando la propria luce in un bel giardino dalle aiuole perimetrale di begonie e alberi infiorati di rosa, vivacizzato dal dono prussiano di una fontana prodiga di giochi d’acqua. Qui si riposano i turisti in posa per le foto, i bambini che giocano a recuperare le scarpe smarrite tra gli schizzi della fontana, le donne con il velo e quelle con il burqa, mentre intorno si anima un terziario dal dettaglio vario ed eventuale.

Le strade di Istanbul s’inbrulicano d’un’infinita fanteria mercante: venditori di pannocchie lesse e di pannocchie arrostite, venditori di ciambelle al sesamo, venditori di bottigliette d’acqua, venditori di fiori, venditori di frutta e di verdura, venditori di caramelle filanti alla spina, venditori molto acrobatici di gelato, venditori di bicchierini di thè, venditori di mele a fettine, venditori di numeri della lotteria estratti da conigli, venditori di borse griffate di fresco, venditori di panini con lo sgombro, venditori di chincaglierie, venditori di fotografie e lustratori di scarpe… tutti in fila per un pugno di dollari.

Appena prima di arrivare a Istanbul ho intrapreso la lettura di Orhan Pamuk, autore contemporaneo turco già meritevole di un premio nobel. Il romanzo “Il mio nome è rosso” è un voluminoso affresco della Turchia del XV secolo, ambientato intorno ai maestri miniaturisti che istoriavano, sacrificando la luce dei propri occhi, i libri commissionati dai Sultani e custoditi nelle biblioteche della sede imperiale del Topkapi. La ricchezza espositiva e il gioco sagace della scrittura di Pamuk riprendono con serenità magistrale l’abilità di questi artisti, facendone ricami con formichine d’inchiostro.

Sede della potenza ottomana e dimora dei sultani, il Topkapi ospitava le stanze riservate dell’Harem, laddove si decideva la discendenza dell’illimitato potere temporale e venivano custoditi i tesori conquistati ad intere popolazioni, insieme agli accativanti doni diplomatici delle potenze rivali. La dimensione dello sfarzo ambisce a varcare il confine tra umano e divino e si circostanzia di linfa vitale, suggendo le vite prescelte delle mille donne dell’harem, dei miniaturisti e dei calligrafi, degli architetti e dei maestri artigiani, dei diplomatici e dei visir. Le porte in madreperla, le maioliche blu, i colorati motivi decorativi, conferiscono alla dimora dei sultani una dimensione trasecolante di potenza univoca, come una forzosa volontà di transustanziazione immanente. Questo sforzo di sfarzo ha la sua esplosione mondana nel tesoro del palazzo Topkapi. Scrigni di smeraldi e troni tempestati d’oro, statuine figurative di finissimo avorio. Eppure spiccano tra tanti ori da perderci i carati, l’illustre pugnale d’oro, diamanti e rubini e l’irenico splendore di un diamante grosso come un uovo e luminoso come un faro sull’isola del tesoro.

Rimanendo sempre a Sultanahmet, non troppo distante dalla magniloquenza del Topkapi ottomano, un’altra opera del genio civile grecoromanico si ostina a serbare memoria della preesistente Costantinopoli. La Cisterna, voluta millecinquecento anni fa dagli imperatori bizantini e dopo secoli riscoperta casualmente da un viaggiatore olandese, incuriosito dal bottino di imprevisti pescatori metropolitani, trascende l’idea del genio civile che immaginiamo poter attribuire alla lontananza di quei secoli, alla faccia del mistero di pulcinella delle piramidi. Centinaia di colonne sotterranee sorreggono questo serbatoio d’acqua appena illuminato di rosso fatuo, dove nuotano storicamente ignari, sotterranei pescioni rossi.

Oltre Sultanahmet, è ancora infinita la grandiosità dell’opera magna edificata ad Istanbul. Dalla vertiginosa torre genovese di Galata lo sguardo si fa panorama sul Corno d’Oro e sui minareti del Bosforo, mentre volano stormi di gabbiani a far traffico anche nei cieli.

Le velleità moderne di questa capitale dell’Eurasia rivelano il loro dinamismo percorrendo il chilometrico viale di Istiklal che porta alla piazza di Taksim, cuore pulsante della Turchia contemporanea e laica, percorsa da migliaia di passi laboriosi, mentre tutt’intorno ferve la vita dei locali e la musica della mejo gioventù che fu ottomana.

Ma di altri quartieri e di altre strade è fatta la città reale, quartieri esterni ai circuiti turistici e per noi cordialmente illuminati dalla visita sapientemente guidata dagli autori di scoprireistanbul.com.
In una mattinata in cui il caldo raggiunge la temperatura di 44° gradi percepiti e per niente attenuati dalle bottigliette d’acqua consumate in serie, ci inerpichiamo scapantibus&sherpantibus per le vie di tre quartieri centrali e cardinali: Fatih, Fener, Balat. Incidentalmente aggiungo che ad Istanbul ci si muove facilmente ed economicamente grazie ai mezzi pubblici, dove non manca l’aria condizionata.
Prima di iniziare la visita guidata, ci affacciamo nella Moschea dedicata a Rustem Pascià, eroe turco protagonista di leggendari cicli d’avventure. Come nella Moschea Blu, anche qui trionfa la bellezza delle maioliche di Iznik, con la particolarità sprizzante del colore rosso.

Fatih è oggi il quartiere metropolitano più integralista e conservatore, antipodalico rispetto alla laicità nazionale proclamata dal Padre della patria Kemal Ataturk. Qui vivono gli immigrati giunti dall’entroterra e dai paesi confinanti, sensibili alla militanza integralista e al richiamo della tradizione religiosa.

Sotto l’acquedotto di Valente, giocano a carte bevendo thè, senza alcuna concessione a pantaloni corti o piedi scoperti, gli uomini tra loro veterovirilmente congregati, e camminano rapide sui marciapiedi, sfuggendo sguardi e frescure, le donne interamente vestite di nero pesante, il capo coperto dal burqa, concedendosi al limite insospettabili velleità di tacchi alti. La via principale consente di incontrare anche la tradizione culinaria delle regioni di provenienza di quest’immigrazione e qui pare si mangi il miglior kebab di Istanbul.
Nel cuore di Fatih, una apparente contraddizione politica rispetto al sinistradestra europeo: un intero edificio avvolto da una bandiera palestinese, testimonia la fede conservatrice e destrorsa del conservatorismo di stampo religioso, caro all’attuale premier turco Erdogan. Mentre la bandiera nazionale turca, così spesso presente in città, solitamente indica la laicità dello stato e s’accompagna a posizioni progressiste. A Fatih, dove l’autorità patriarcale e matriarcale resiste al laicismo nè tantomeno ha conosciuto sessantottismi, vige la regola religiosa e può capitare che ad una ragazza venga preclusa l’iscrizione all’Università da parte dei genitori, stante il divieto di indossare il burqa nel perimetro dell’istituzione laica. Intorno i negozi espongono solo vestiti tradizionali e conformi alla regola. Sicchè a Fatih è facile incontrare un giovane studente coranico, precocemente avviato alla carriera da imam, mentre a Sultanahmet una coetanea adolescente passeggia con il velo colorato, la maglietta punkeggiante e le converse all star.
La presenza insolita dei turisti attira sguardi curiosi, di adulti riprovevoli verso i costumi occidentali ma soprattutto di bambini, gioiosi&giocosi, felici di salutarci e magari speranzosi di spicci. Un piccolo stuolo di ragazzini salutanti, gli ‘Hellos’, ci segue per un chilometro, tutti in posa a denti scoperti per le foto antropologiche in very national geographic style.

Fener, antico quartiere greco, e Balat antico quartiere giudaico, sono quartieri dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Qui, nei secoli, hanno vissuto, brigato e generato ogni fenotipo umano, popolare e letterario proprio dell’anima turca. Da quartieri ricchi che furono, oggi incurvano sotto il declino e l’incuria, mancando le risorse per la manutenzione di queste strade.
Le vicende storiche, gli incendi e i terremoti hanno ridisegnato la presenza antropica sul territorio e oggi non vi sono le suddette caratterizzazioni etnico religiose persistenti. Ma restano le ville e le case d’ispirazione vittoriana, con i balconi chiusi sporgenti come pance di legno, tra parabole, panni stesi e gialloverdi/rossoazzurri colori pastello, saliscendi stradali e alberi di fico a profumare l’aria.

Concludiamo il giro visitando la chiesa mai convertita di Santa Maria dei Mongoli, mantenuta a colpi di vetril e buona volontà dai custodi, nel disinteresse delle istituzioni che riservano alle moschee i pochi soldi delle casse, la bizzarra Chiesa prefabbricata interamente in ferro di Santo Stefano dei bulgari e i mosaici storici del più famoso complesso monumentale di San Salvatore in Cora.

L’affaccio sul mare più brulicante di Istanbul è quello di Eminonou, punto nodale della navigazione urbana sul Bosforo sbrilluccicante d’azzurri riflessi e di vita vissuta. Ci imbarchiamo sul traghetto di linea per un lungo giro sul Corno d’Oro, in felice osservazione dei lungosponda cittadini. Sfilano i palazzi residenziali e le ville estive sul Bosforo, con i loro attracchi riservati, attraversiamo colline boscose e visionamo almeno tre ponti sullo stretto, genio civile con esibizionismi di colore cangiante. Passiamo accanto al quartiere di Ortakoy, dove una vivacità di gente nei locali si prende il tempo di vivere e di ballare come in quadro di Renoir.

Nelle prime file del traghetto la scena è rubata da un anziano signore presumibilmente settantenne o giù di là, che rispondendo al ritmo delle musiche diffuse, prima accenna il passo, poi apre la danza e infine da spettacolo, improvvisando una pista da ballo accompagnato da una compagna di show. Lui, viso furbo y final da calciatore sudamericano d’altri tempi, vestiti semplici ma impeccabilmente comodi,un barbiere per amico e le movenze memori di chi in gioventù ben spesa è stato avanzo di balera. Lei, quaranta portati male o forse sessanta portati bene, magra come un chiodo, un sorriso dolcemente conviviale e un look di pantacollant da ragazza dello zoo di Berlino. Gli applausi dell’improvvisato pubblico sottolineano l’esibizione.

Visitiamo anche il Dolmabahce, residenza dei sultani ottocenteschi, una Versailles di fine impero o uno Schonbrun indotto. Calpestiamo il parquet salvaguardandolo con terrificanti calzari in domopak, senza pietà per il caldo che fa. La ricchezza di saloni e lampadari mostrano il compromesso storico e culturale di un Impero che si monarchizza. Qui s’insedia anche la Repubblica finchè si fermano gli orologi, alla morte di Ataturk. Oggi restano le guardie turche militanti di guardia ai cancelli sul mare, se dovessero fregà er Bosforo…

Vicino al Dolmabache si mette in evidenza il quartiere di Besiktas, popolare, moderno e alimentare, mercato del pesce e negozi di coevità tecnologiche.

Tutt’altra anima commerciante nei due grandi mercati cittadini. In zona Eminonou, indentrato nei vicoli secolari, s’effonde il Bazar delle Spezie. Polveri, semi e frutti da mille e una strada, echi di carovane&cammelli dispersi in passati marcopolici per arrivare oggi a questa vendita al dettaglio, in fotogenica scenografia dolomitica, montagne di curry, cannella, pepe, coriandolo e cumino, noci caramellate e glassate, frutta secca candita, pistacchi e nuvole piccanti, gelatine e miscele di tè…gradazioni di verde, gialli profusi, ocra e porpora in the air. Qui è facile sentirsi fortunati dopo l’acquisto di sacchi di zafferano a prezzo da noccioline per le scimmiette... Resisto alle spezie e acquisto in controtendenza una maglietta rosso scugnizzo, perchè più che l’aroma potè il color.

Ma il trionfo del dettaglio, la transustanziazione della compravendita è Kapalicarsi, il Gran Bazar che per estensione fa provincia e offre ogni estro dell’occidente a prezzo da vicino oriente. In un formicaio d’umanità ceramiche fatte a mano e fatte in cina, tappeti d’autore e zerbini da reparto, giubbotti in pelle e cappotti in cartone, residui di manifattura tessile ivi prodotta e alti capi ivi contraffatti. Gioielleria e bigiotteria, argento al grammo e souvenir a chili, borse firmate e controgriffate in ampio assortimento dalla pelle all’ecocartone. Basta scegliere e pagare, trattando s’intende.


E infine la cucina. Come si traduce in bocconi per mascelle quest’immenso scorrere di vita e di storia? Nel tutto&ovunque, che domande. Ad Istanbul lo “street food” ha dimensioni da capitale universale. I panini con lo sgombro o gli spiedini di cozze fritte si trovano facilmente ad Eminonou o lungo le soste del giro sul Bosforo, ma soprattutto imperdibile è la “Kumpir” che si vende ad Ortakoy: patata sotto cenere, farcita di slavine di bendidìo e salse a volontà e auspicabile il “lamakun”, ovvero la pizza turca da consumare
con una spruzzata di limone piegandola a libretto. Menzione di parziale onore per il kebab, spesso buttato là, come si buttano le carbonare al colosseo.

Quanto ai ristoranti, dove mangiare con la media di trenta corone (15 €) in due, vale la pena assaggiare i fagioli al piatto di “Kurufasulye”, a Sirkeci, quasi di fronte alla Stazione dell’Orient Express, le “kofte” – polpette - di Sulthanamet, trattoria per turchi buona pur se fin troppo rapida o il “kokorec”, per gli amanti del quinto quarto, una sorta di pagliatina speziata d’agnello, davvero buona o l’ “Imam svenuto”, melanzana infornata con un listarellato passito di cipolle e peperoni.

E’ una sera dei miracoli a Sultanahmet. Vogliamo festeggiare ricorrenze e cerchiamo quel bel ristorante di cui abbiamo letto, laddove la cucina ottomana elabora e rappresenta la sapienza tradizionale. Cerchiamo il Karakol, percorriamo al chiaro di luna i viali che costeggiano il Topkapi ma qui non c’è insegna che ci indichi la strada, sicchè ci rivolgiamo alle autorità locali che son due poliziotti di guardia al mondo, che cortesemente ci chiariscono che occorre bussare, fare toc toc e accederemo dentro il giardino stesso di quella che fu la residenza secolari dei sultani. Ma fare toc toc ad un portone di ferro alto quattro metri e largo altrettanto non produce che un suono attutito. Citofonare Topkapi, non è possibile. Ma si vede che era destino. Un ragazzo di bell’estrazione con la sua compagna tirata a lucido, stanziano proprio davanti quell’uscio, e il caso vuole che sono amici del padrone del locale e gentilmente si offrono di farci entrare, telefonando direttamente dove apresi quel che si vuole e più non dimandar. Così, due poliziotti ci aprono il portone, tirando pesanti catene e varchiamo quella che è stata La Sublime Porta, soglia del desiderio secolare per infiniti sudditi, uscio temuto anche dai protagonisti di romanzi, proprio come capita all’attonito Nero protagonista del libro di Pamuk che sto leggendo. E non ci sono code di turisti, folle mattiniere alle biglietterie e clikki clikki fotografici. Ci siamo solo Noi, Cesaroni d’Occidente in odor di magic moment. Il Ristorante non corrisponde a quanto avevamo letto: è ad un livello ben superiore. Un caposala, due camerieri ed il padrone del locale ci vengono incontro e ci fanno accomodare ad una molto pregiata tavola con tovaglie di lino, forchetterie d’alto bordo e bicchieri soffiati. E non ci siamo che Noi, che evidentemente quella soglia inibisce l’avventore casuale ma s’apre solitamente ai referenziati. Fa fresco, si sta bene, c’è il Topkapi tutto per Noi. Contiamo gli spicci e ordiniamo. Il Menù riporta l’offerta di piatti lunghi almeno tre righe di barocco condito, e le nostre scelte ricadono su tortini imbalsamizzati e controfiletti aromatici&trifolati, scottati, saltati, cheffizzati. D’improvviso non ci sono dodici milioni di abitanti in perenne vorticare on the road, né resse turistiche, ma una bellezza dedicata solo per Noi. Andiamo via facendo le foto, il Portone del Topkapi si riapre per Noi e ci portiamo via un souvenir di quelli che pure se ci fai le foto, il ricordo vero è inciso nella memoria. Diciamolo, Istanbul val bene un compleanno.


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Wednesday, September 01, 2010

SanTurkini






Santorini aspett’a’tè.


Fa caldo come quando fuori c’è sole, quel sole cattivo delle città che conglomera i bitumi riscaldati in una macchia ardente e sfiamma il cotone degli abiti mai troppo leggeri, intimando d’andar via, a filo di vento via, verso ciò che resta del giorno d’estate, via. Il 29 luglio pertanto, prendiamo la corrente estiva dell’Est e voliamo a Santorini, due ore di pensieri finalmente ecosostenibili in alta quota e un atterraggio a planare, a cento metri dal Mare Egeo, nel cuore antico delle Cicladi.


Santorini ci sono già stato, nell’anno di grazia adolescenziale 1989 e nell’anno di gioventù oramai bruciata 1993. Santorini è per me l’isola del primo fior di conio della moneta sensibile greca, il benvenuto d’immagine e il resto della memoria nel luogo della mente dove s’olografano i ricordi.


Il primo tratto di modernità odierna consiste proprio nell’arrivarci via cielo, in due ore piuttosto che due giorni, al netto di traversate multimodali, rugginose&salmastre, via Brindisi, Patrasso e Atene, God Save the Low Cost.

Il secondo tratto di novità lo scopro all’aeroporto, quando contratto il mio alloggio locale. Come da anticipazione sui siti web di booking on line, non vi sono più affittacamere arrembanti e diffusi, vecchietti col mulo alla capezza che in un quanto basta di english ti piazzano una stanza senz’acqua calda ma con tanto folk, bensì un ragazzo più o meno quarantenne che mi illustra il suo confortevole Hotel e che per 50 € di stanza doppia garantisce pulizia, colazione e perfino piscina.


Alloggiamo a Karterados, villaggio al centro esatto dell’isola, quattro vie di case sparse e trattorie, ottimo baricentro per l’esplorazione dei versanti cardinali tutti a dieci minuti a piedi dalla capitale Thira (o Firà che scriver si voglia).


Ed è proprio a Thira che andiamo incontro al primo chiarore della sera, laddove la città s’intaglia a picco sulla caldera, la bocca di vulcano che dà all’isola la reminiscenza d’Atlantide, e là ritrovo le stradine pavimentate a sassi, la gloria egea delle cupole azzurre infilate nel cappello delle chiese, finestre trifore e croci di ferro, il bianco affresco delle case e un mondo di passi, pantaloncini e vestiti vacanzieri affluenti ai vicoli e confluenti sotto gli archi, desiderati da una folla di merci in special prize, di ristoranti specialità panorama, mentre intorno è strapiombo, infinito blu della sera e del mare, odore di gyros pita.

Thira è cresciuta, è diventata grande ventànni dopo, elettricizza sui fianchi collinari uno skyline misurabile in kilofilari di kilowatt, batte cassa di risonanza nei locali, rende tutti più giovani e più affamati del dovuto. Ma è luglio e l’angolo di sezione aurea non è ancora ottuso, guarda negli occhi chi ha buona mira per vedere, ricorda i ricordi col colore che avevano, splende di luce abbacinante di giorno e di sera apre il guardo sull’infinito di tanta parte dell’ultimo orizzonte.


Di che t’Imerovigli?


Dal secondo giorno in poi arrotondiamo i chilometri quadrati isolani in sella al motorbike a buon mercato di Karterados, 15 € full day e full wings sott’ai piedi, per strade che portano al sole e non farei fermate neanche per il mare, tanto ci prendo gusto.


Ci geolocalizziamo innanzitutto ad Imerovigli, così da dare un seguito alla visione serotina di Thira con la pienezza espressiva del mezzogiorno cicladico. Imerovigli, dieci minuti a Nord di Thira, ne segue i fianchi e fa da attico buono alla caldera. Sopravissuta indenne all’espansione del commercio al dettaglio degli anni ’90, ad Imerovigli non si trovano file sequenziali di rappresentazioni merceologiche ma vicoli pavimentati e puliti, candidi incroci sbilenchi, balconcini intonacati e ripiderie a scale, infusioni di bouganville fiorenti nell’aria e alle finestre, improvvise porte pittate di blu e prive di cubatura retrostante, spalancate sull’uscio dell’infinito, in uno scambio di benvenuto con l’azzurro del cielo. Il sole sembra sentirsi come a casa sua.

Una chiesetta mette a disposizione di miscredenti e ortodossi il proprio davanzale d’alta quota, lasciando il dubbio che se un dio ci sia, è più facile che stia nell’infinito sfondo antistante che nel piccolo sacrario interno.

La riforma contemporanea del turismo ad Imerovigli è nata sulla Reconquista delle vecchie case dei pescatori che venivano fittate a cottimo ai backpapers routardi, imponendo enclosures su ogni affaccio di panorama, convertendo ogni terrazza e finestra in moderni studios&resorts, luminosi hotel pluristellati e international spa, limpide piscine in forma di rosa ed ecocompatibili con un infinito a portata di cocktail, jacuzzi lightening en plen-air, magic honeymoon e sunset boulevard, a beneficio&godimento dell’Elite New Age, very up-to-date, dal portafoglio facile&sorridente.


Pochi metri ortogonali e si ripidiscende a Firostefani, mediana via tra il tuttidentro di Thira e l’esclusività di Imerovigli. Anche qui l’affaccio è cosmicamente sbilanciato sul vulcano, un precipizio bluvertigo sulla parete rosso lavica sfocata, senza possibilità di spiagge se non in barca. A Firostefani torneremo due volte per cena, avendo trovato la Taverna Simo’s, filantropica oasi dai tavoli di legno e con pergolato spiovente&fitto, a testimonianza delle brillanti possibilità di fotosintesi del ficus benjamin, specialità culinarie ‘tutto’, ed in particolare Taramosalada fresca (insalata di uova di pesce), Melinzanosalada agrorustica, Moussaka nel coccio, calamaro alla griglia – che è la morte sua e pure un po’ mia - , pomodori fritti di quest’isola fortunatamente esposta alla alla verdura, crema di fave di Santorini ( un fiftyfitfty di lupini&lenticchia), ottimo bifteki d’aroma cortese e genuino, prezzi user friendly sui 30 € per due persone, perché se l’occhio ha avuto la sua parte, la corrispondenza di amorosi sensi arriva anche per il palato.


Lo slancio in sella continua e approdiamo alla prima spiaggia, sul versante orientale dell’isola, la blanda e riparata Monolitos, familiarmente contigua a Karterados, semplice e profonda, immediatamente sfatando il mito dell’acqua gelida. 5 € d’ombrellone e due sdraio, i libri ce li metto io: è proprio qui che Alex, l’eroe, il nonno e Sammy Davis Junior Junior iniziano il loro on the road noto come “Ogni cosa è illuminata” e idealmente ambiento a Santorini l’Ucraina. Il libro non mi piace, troppo ironia, poi mi piace tantissimo per la scrittura complessa, poi mi fa ridere, poi cambia registro, non c’è niente da ridere, i toni son tragici e le mie convinzioni sui nazisti in ucraina ne escono rafforzate, insieme al giudizio sull’ottima lettura e alla precognizione che Jonathan Safran Foer è predestinato ad un Nobel.

Attraverso i saliscendi stradali e sotto al caldo che prende di mira questi kilometri riemersi nell’egeo che sembra oceano, ci addentriamo per i villaggi interni. A sud di Thira c’è l’antico capoluogo isolano, Phyrgos, sopravissuta ai terremoti che puntellano i secoli di Santorini. Phyrgos è un secolare avamposto al turcomanno, che scansa il mare per la campagna e si verticalizza in salite tortuose per vicoli lattei&petrosi, invecchiati senza trucchi e senza inganni, fino ad aprirsi sulle rovine di una fortificazione medioevale dove si può salire per tetti e gradoni, tra vecchietti coi somari, bouganville di rosa vestite, fichi d’india, cactus e fiori d’acacia, gatti impigriti, oleandri e piante aromatiche.

A qualche tornante di distanza, c’è il Monastero del Profeta Elia, piccolo chiostro, secolare custode di visioni profetiche arroventate e giardino annesso.


Le strade dell’entroterra costeggiano viti nane da malvasia e capperi mediterranei, come nei pressi di Messaria, piccolo paesino che ospita un monastero screziato d’ocra e di nero, distinto nel circondario delle cupole blu. All’ingresso del paese, una porta solitaria da il benvenuto al giardino di un bell’edificio abbandonato, forse una scuola, forse una villa, di certo il segnale del disinteresse turistico extracostiero.


E poi si arriva sulle spiagge più belle. Tra tutte, storica nei miei ricordi e nell’attualità contemporanea, la Red Beach. Chi l’ha detto che a Santorini non si viene per il mare? Esposta ai venti del versante sud-occidentale, la Red Beach si raggiunge solo a piedi e appare come una tagliata di promontorio dietro l’angolo in quota di un tornante, scintillante di blu trasparente, nella sua baia costonata di roccia lavica donata dal vulcano. E’ questo il colore miracoloso del Mare Egeo: non il biancoceleste caraibico, né l’azzurro eclettico di Sardegna o il verde pineta degli arcipelagi adriatici, ma un blu oceanico che si sfoglia limpido a vista, come fosse bianco ottico. La densità dei bagnanti aumenta, ma senza nulla togliere al piacere di esserci e diventare pesci nell’acqua tonica.


Passando il tempo, il Babis Hotel si rivela un’ottima scelta, s’avverte una tradizione d’ospitalità per l’ambiente domestico, per le colazioni di yogurt al miele, per la cordialità dei gestori , per la pulizia e per la piscina, che non sarà necessaria ma se c’è fa buon tuffo.


A Karterados scopriamo la trattoria Tò Skaramanka, anch’essa laureata ad honorem in greco classico, laddove sempre con una trentina di € e sotto un tetto di ficus in atmosfera sirtaki, entriamo in sintonia tra l’altro con una fresca grigliata di spigole, pannocchie, calamari, marmore e pescheria dicendo. Apprezzate con genuino piacere anche le olive kalamata e la filologica insalata greca.


Altra spiaggia beneficiata dalla geologia vulcanica è Vlikhada, situata sempre sul versante sud. Qui la roccia ha giocato a travestirsi da luna, incoronando la spiaggia di una morfologia che sembra progettata da Gaudì per i tetti della Pedrera e cantata dai Police in Walking on the moon. Il flusso turistico è clemente e il mare traspare per quel che bagna.


Ma la spiaggia dei desideri dei miei pensieri che a ripensarci van, è quella di Kamari. Sita a sudest dell’isola, non troppo distante dall’aeroporto, s’estende per qualche chilometro e si chiude nel suo tratto migliore sotto al promontorio dove risiede l’antica Thira. Anche qui con 7 € d’investimento giornaliero ci si può accaparrare sdraio e ombrellone e malgrado le perplessità iniziali sulla visibile presenza antropica, si rivela placida come una biblioteca felicemente affacciata su un mare di blù dipinto di blù. Kamari è anche il nome del paesino che corre lungo la spiaggia, un chilometro di internet bar e souvenir, di trattorie cheap e piccoli resort, promesse d’aperitivo e spuntini a tutte l’ore, ed in effetti vi si trovano degli ottimi Giros Pita (piccoli kebab ellenici) per fermare gli appetiti all’ora di pranzo. Probabilmente ci si starebbe bene per una vacanza di relax fuori dal mese d’agosto, anche se rimane il sospetto di una seconda vita notturna a suon di decibel (fermo restando il beneficio di chi la cerca, s’intende).


Kamari, sotto l’ombrellone di paglia son disteso a leggere e purifico la mente, sfrondo i pensieri del superfluo indotto, rintraccio le mie linee originali di pensiero, lascio che gli occhi guardino il mondo e i neuroni ragionino con la loro testa, che sarebbe la mia, tutto si può apprendere e tutto si può pensare, mentre il mare di Kamari si sbarbaglia paglierino di riflessi aurei irripetibili. Se Kant fosse stato qui si sarebbe fatto un bagno di blu, accantonando per un momento la cosa in sé e magari non avrebbe avuto nostalgia di Konigsberg.


“The sun machine is going down and we’re going to have a party” (David Bowie)


Al primo soffio serale del vento Meltemi sull’isola, s’abbrivia il più famoso rito mainstream: il tramonto cicladico. L’ultimo spettacolo eternamente quotidiano dell’affondo in mare del sole, abbracciato dal colonnato sanpietrico d’arte vulcanica, evento sacrosanto&profano che da quando esiste l’arte di tramandare il turismo pittura le cartoline e richiama l’occhio meravigliabile degli spettatori.

Una migrazione verso nord di pulman e motorini, auto e pellegrini, barchette a vela e pescherecci che partono ogni sera verso il gran teatro del mare del paesino di Oìa, punta nord dell’isola e luogo eletto dei tramontofili della prima e dell’ultima ora. Il paesino è fresco di nuovo e caldo d’antico, presenta una cordialità da boutique ed è visibilmente raffinato nei suoi ristorantini da gourmè, overbudget d’autore per gli ottimati delle vacanze.

L’orientamento ad ovest del tramonto coincide con l’orientamento occidentale del mercato che vi è nato intorno. Come su carta millimetrata, ogni punto d’affaccio sul mare è un ritaglio frattale convertito in posto a sedere e posto in piedi. In fronte al panorama, laddove c’erano il compare greco col nescafè o l’uozo adesso c’è un cocktail bar, modernamente lounge e glamourosamente fashion, e così mentre il sole muore, nascono compilation soft per un requiem very chill òut. L’intera balconata, vista da lontano si presenta come un formicolio di teste border-line sulla caldera.


Lo spettacolo è suggestivo quanto promesso, un po’ prevedibile nell’affondo finale e come nei film di successo al cinema o negli atteraggi italiani, il momento della scomparsa del testarossa dietro una nuvola di mare viene sottolineato da un applauso del pubblico pagante e non.

Lo spettacolo, va detto, è comunque altrettanto bello anche nelle sale di Firostefani e Thira o di Imerovigli (e forse qui, anche di più, distendendosi i colori più a ridosso della caldera).




L’occhio del Partenone


Salutata Santorini senza promesse da marinaio, ci fermiamo qualche ora ad Atene, quanto basta per una visione notturna del Partenone da lontano e un’immersione mattiniera nel Partenone da vicino.

La presa di contatto con Atene per quanto rapida, collauda la presenza di economici servizi navetta notturni dall’aeroporto e una metropolitana efficiente, retaggi delle olimpiadi di qualche anno fa.

Forse attenuata la cappa di smog soprastante, lo Skyline cementizio invece resta identico in quantità ed invecchia in qualità, lasciando preferire le periferie del socialismo reale quali modello di sviluppo urbano e di verde pubblico. Atene capitale europea dell’Heavy Metal interiore.

Verificato che i marmittones del cambio della guardia sono ancora lì, rigorosamente disciplinati e con le loro calzature col ponpon, mentre il sole non ha pietà e manifesta per la pace sopra le loro teste, affrontiamo la santa fatica che occorre per scalare l’Acropoli ed arrivare al punto dopo la curva, dove i propilei s’aprono improvvisamente alla vista, il tempio di Atena Nika testimonia vittorie e ad ovest si staglia il Partenone di Fidia, orientato per dar luce astrale al rapporto aureo della bellezza universale. Sopravissuta alle battaglie di turchi e veneziani, alla rapacità maledetta di Lord Elgin e nonostante l’ardenza rovente in the sky e i cumuli gentiformi riversati dalle soste delle costecrociere, l’Acropoli persiste, con una pazienza da cariatide, nel testimoniare che l’origine della civiltà era proprio qui, mentre intorno, tutto intorno, mondialmente intorno, era tutta campagna.


(to be continued...)

Monday, May 17, 2010

Tira questa cinghia già rotta



Una nota semplice e prosaica, come del resto è il lunedì feriale.
Arriva la manovra economica, annunciata da amorevoli tagli agli stipendi parlamentari, è l’ora di stringersi a coorte, star pronti alla morte, tutti sulla stessa barca, per evitare la rotta della Grecia. Sventolando il bandierone mundial, tiriamo questa cinghia già rotta.

No.


Non sono i nostri redditi a dover pagare, perché già per altre economie.

Pagano e hanno pagato per i costi economici delle mafie, per i costi dell’evasione fiscale, per i costi della corruzione,
per i costi di casta (argomento quest’ultimo maledettamente populista e sopravvalutato, ma da citare a margine) e privilegio.

Ogni costo, per la relativa aliquota, incide sui redditi di chi vive al di sotto della soglia dell’onestà e del sostituto d’imposta: un’economia reale e contribuente funzionale ad un’economia lubrificata e parallela. Fossi uno statistico economico, sarebbe interessante quantificarle, queste aliquote. E farne argomento.


Ci sono poi le distorsioni. Sugli stessi redditi incidono i prezzi gonfiati delle lobby di mercato, i cartelli concorrenziali dei petrolieri, i monopoli della grande distribuzione alimentare, la bolla speculativa che ha permesso ai prezzi degli immobili di raddoppiarsi.
Un’economia forte che sfrutta la posizione dominante su un’economia debole dietro un velo di mercato e sotto il giogo delle necessità primarie.


Avendo scarse nozioni in materia, non posso entrare nel merito dell’economia finanziaria speculativa, ma è facile dedurre come anch’essa rilevantemente si aggiunge al cumulo, alimentando rendite di posizione, capitalismo che si autodetermina gli interessi.


Con l’avallo di un Governo conservatore, ieri come oggi.
Basterebbe chiedersi: quali sono gli interessi economici difesi da un Governo conservatore?

quali patrimoni si son conservati e quali sono aumentati?

Un Governo conservatore attinge dall’economia reale per convivere con l’economia parallela, per sostenere l’economia forte, per condividere l’economia speculativa. Son tutti clienti e il cliente ha sempre ragione, ti vota per questo.

Demagogia e mediatica e controllo sul territorio soccorrono quantitativamente gli interessi conservatori, legalizzandone i quorum elettorali, ma questo è un altro argomento.

Basterebbero queste stupide osservazioni per richiamare la centralità di una politica dei redditi e per farne un programma d’opposizione a vocazione progressista.
Dieci/quindici anni di redditi serventi ad un’economia dominante. Forse è l’ora di dividersi scientemente in conservatori e progressisti per poter parlare di un’altra politica e di altre tasche.

UOMO – Bracco Di Graci